Leggo o ascolto molto spesso questa affermazione: perché vi occupate con tanta passione di questa guerra di Putin, ma non c’eravate in Iraq (Bush 1 e Bush 2), in Libano, in Siria, in Libia?
Io credo di esserci stato, anche perché mi porto addosso, dall’età di nove anni, il trauma della guerra, non discussa ma vissuta, delle bombe che cadono (senti il fischio se arrivano 20 o 30 metri lontano, ma un rotolio sempre più enorme se puntano sulla tua casa o case vicine) e il lungo crollare delle macerie, come se cadessero insieme 100 case, poi la tremenda sorpresa, se esci fuori impastato di polvere, con l’euforia di essere vivo, quando vedi una città perforata fino al centro della terra, con le rotaie del tram che puntano verso il cielo.
Ero ad Haiphong, nel Vietnam del Nord, credendo di filmare il primo abbozzo di pace di una violentissima guerra fra Vietnam e Stati Uniti, non sapevo che le trattative si erano interrotte e un bombardamento senza soste ha colpito quel porto per giorni e per notti. Mi ricordo che non ho mai smesso di indossare giacca e cravatta in mezzo a quei detriti e a quella polvere, per non essere scambiato per un militare, di qualsiasi parte. Ho ancora le fotografie dei bambini che sbucavano dai tombini e si aggrappavano alla mia giacca proprio perché non era un indumento da soldato.
Mi ricordo del Libano a causa di un personaggio a quel tempo importante nel suo Paese e poi in Israele. Era Jacobo Timerman, fondatore e direttore dell’importante giornale argentino La Opinion, oppositore appassionato del regime del fascismo-peronismo al potere. Avevamo molti amici in comune. Presto è stato fatto scomparire perché antifascista e perché ebreo, in una vicenda che lui narrerà nel suo celebre “Prigioniero senza nome, cella senza numero”. È stato ritrovato e poi liberato dalla tenacia diplomatica di alcuni personaggi democratici negli Usa. Timerman è andato a vivere in Israele e, da giornalista attivista (e autorevole) quale lui era, si è impegnato per lo sganciamento di Israele nel Libano, benché il Libano fosse il quartier generale degli Hezbollah cioè di un pericolo imminente per Israele. Il tema era comunque la pace. Entrambi conoscevamo e intervistavamo Sharon. È stato in quel periodo che il leader israeliano Sharon, venendo a Roma, ha concluso un’intervista con queste parole: “Io farò la pace. La posso fare perché io sono di destra”. Una frase che allora, nel contesto israeliano del dopo Rabin, era credibile e sensata. Il ritiro israeliano da Gaza è avvenuto subito dopo.
Sulle guerre in Iraq non ho mai smesso di scriverne per due ragioni: una era la guerra di Blair, con la sua famosa frase su Saddam Hussein che avrebbe potuto distruggerci in 45 minuti. L’altra, per noi italiani, era una guerra privata di Berlusconi per avere gloria personale e altre convenienze.
Sulla Siria ho scritto sempre, prima di questo giornale, e innumerevoli volte sul Fatto Quotidiano (in questa pagina) proprio perché Assad, nonostante i delitti spaventosi del suo governo, continuava a essere leader rispettato e accettato dall’Europa bene.
Sulla Libia, quella di Gheddafi, contro cui mi sono battuto pronunciando in Parlamento il solo discorso di rigetto e ho votato “no” (con il deputato Sarubbi): era il trattato di fraternità votato all’unanimità dal Parlamento italiano.
Come i lettori sanno, ho continuato dopo la mia avversione contro i vari fantocci presentati come “il nuovo governo libico”, gestori di prigioni spaventose e proprietari di navi italiane al solo scopo di inseguire e catturare, se possibile affondare in mare i migranti.
Questi fatti non sono un vanto. Ma ora mi sto impegnando come posso (e come tanti italiani, forse non la maggioranza) a condannare l’interventismo di Putin, questa sua “operazione militare speciale” che significa un progetto di invasione e distruzione del vicino Paese Ucraina.
E allora vorrei dire a Donatella Di Cesare, amica, filosofa e autrice di alcune opere che hanno cambiato il senso e l’interpretazione di alcune cose e persone (il suo Heidegger): perché, avendo vissuto la guerra nelle sue brutture più profonde, divento un sospetto avversario del pensiero ordinato se rifiuto e disprezzo la guerra di Putin e sto, da ex collega, dalla parte dei bambini in fuga?