Il Documento di economia e finanza 2022 ora è pubblicato sul sito del Tesoro e il mondo della scuola ha subito notato con disappunto che i promessi investimenti nel settore dell’istruzione non ci sono: dopo le spese d’emergenza per il Covid del biennio 2020-2022 si tornerà rapidamente al business as usual con buona pace delle belle parole spese da Mario Draghi in Parlamento nel suo discorso d’insediamento. Queste: “Spesso mi sono chiesto se noi, la mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per i giovani tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura”.
Il meglio che possiamo fare, pare, è destinare all’istruzione il 3,5% del Pil nel 2025: un calo drastico dopo il 4% del 2020 (e il segnale definitivo che gli assunti d’emergenza saranno “esodati” a giugno) e anche meno del 3,6% del Pil del 2015. Questo, ovviamente, a non voler citare i fondi che gli altri Paesi Ue destinano a scuola e università: nel 2019 la media era il 4,7% del Prodotto interno lordo dell’Unione (per capirci, la differenza tra 3,5 e 4,7% in Italia sono una ventina di miliardi ogni anno), ma alcuni sforavano allegramente il 6% del Pil (Svezia, Danimarca, Belgio).
Ritardi cronici, si dirà, e in realtà anche la conferma del quadro macroeconomico già messo nero su bianco nel Def 2021, il che non rende meno grave la scelta di non puntare su scuola e università: di fatto i promessi investimenti in istruzione nell’ambito del Pnrr si rivelano sostitutivi di quelli pregressi visto che la spesa in rapporto al Pil decresce da qui al 2025. Un fatto che va messo in relazione con un altro: la spesa pubblica per la scuola è diminuita del 7% nel periodo 2010-2018, quella universitaria del 19%.
La cosa, ovviamente, non è sfuggita ai sindacati: “La spesa per la scuola nell’arco temporale del Def 2022-2025, si vede ridotta di mezzo punto di Pil. Come si farà ad attivare le transizioni ecologiche, tecnologiche e digitali con risorse che cambiano importi e destinazione? La musica è sempre la stessa, scritta sullo spartito del neoliberismo che pensavamo, a torto, avesse mostrato tutti i suoi limiti dopo la pandemia e la guerra”, è stato il commento a caldo del segretario generale della Uil Scuola, Pino Turi.
La cosa più inquietante, peraltro, è un’altra conferma rispetto alle previsioni del governo Draghi dell’anno scorso: la spesa non è prevista salire nemmeno nei prossimi decenni (anche se rispetto a settembre tra 2030 e 2040 ci sono un paio di decimali in più, sempre in rapporto al Pil, rispetto all’analoga tabella del settembre 2021). Qui c’è un tocco di genio, perché al ministero considerano questa stabilizzazione un aumento di spesa per via del crollo demografico che da anni interessa l’Italia: siccome ci saranno meno bambini in classe (e dunque, pare, non si intende far nulla per invertire il trend), confermare lo stesso livello di spesa significa di fatto aumentarla.
A chi comunque volesse lamentarsi che suo figlio o sua figlia sono oggi – e non nel 2060 – in una classe da 27 alunni o in una scuola senza laboratori, con pochi insegnanti, eccetera, forse si dirà che i figli degli scolari di oggi staranno molto più larghi. Basta aspettare, ci pensa la decrescita infelice.