Negli ultimi 30 anni la scoperta di varie misure affidabili della felicità ha dato vita a una enorme quantità di studi, il cui risultato è dirompente: quello che condividiamo è molto più importante per la felicità di quello che possediamo. Possedere di più è importante solo in condizioni di privazione materiale. Ma una volta assicurate condizioni di vita accettabili, quelle che nei Paesi industriali sono a disposizione della gran parte della popolazione, non è quanto guadagniamo che fa la differenza per la felicità ma ciò che condividiamo. La qualità degli ambienti naturali e costruiti in cui viviamo e soprattutto le relazioni affettive e sociali hanno una importanza dominante per la nostra felicità. Questa scoperta ha implicazioni enormi su come coniugare sostenibilità e felicità. Condividere rende felici e non inquina; possedere non rende felici e inquina. Infatti è l’enorme massa di beni che produciamo e consumiamo che sta lesionando la biosfera. Quindi se vogliamo vivere in modo più felice e sostenibile dobbiamo puntare a espandere ciò che condividiamo e non il possesso.
Sappiamo come fare per ampliare la condivisione: come organizzare le città in modo da ridurre la solitudine, compreso quella dei giovani e degli anziani; quali metodi di insegnamento usare nelle scuole per formare persone capaci di costruirsi buone relazioni e vite felici; quali modalità di organizzazione del lavoro nelle imprese favoriscano il benessere e le relazioni di chi ci lavora; quali leggi contrastino la manipolazione operata dal marketing, che ci convince che comprare è la soluzione di tutti i problemi; sappiamo anche che se rafforziamo i legami sociali la spesa sanitaria diverrà più sostenibile, perché la sanità è il terminale del disagio; infatti la povertà di relazioni è una fabbrica di malattie fisiche e mentali. Sappiamo queste cose perché nel mondo pullulano esperimenti ed esperienze consolidate su questi temi. E funzionano.
In pratica dobbiamo fare il contrario di quanto stiamo facendo da molto tempo. Invece di cercare di migliorare la condivisione, la nostra società punta alla crescita economica, cioè alla espansione del possesso attraverso l’aumento del potere d’acquisto. Per questo le società industriali sono organizzate in base a priorità economiche. L’economia è stimolata con tutti i mezzi possibili, a cominciare dall’istruzione dei bambini, sempre più finalizzata al mercato del lavoro. L’intera organizzazione sociale è basata sulla stimolazione della competizione e del possesso, come se ciò che possediamo fosse tutto ciò che conta per vivere bene.
Siccome non è vero, il risultato è una società che non è né felice né sostenibile. Negli ultimi decenni sono dilagate solitudine, perdita di senso di comunità, di solidarietà e di appartenenza, povertà di relazioni, percezione di impotenza personale e collettiva. Tutto questo ha reso il denaro sempre più importante per la felicità perché possedere di più è l’unica difesa che abbiamo dal condividere di meno. Affidiamo ai beni materiali il compito di riempire il vuoto interiore causato da relazioni rarefatte e conflittuali; ci rifugiamo in vacanze in paradisi tropicali per sfuggire alle nostre città frenetiche e stressate; cerchiamo di lasciare ai nostri figli un bel gruzzolo per proteggerli dalle incertezze di un futuro degradato, ecc. La feroce caccia al denaro che tutto ciò ha generato è stata il motore della crescita della economia negli ultimi decenni. La ricchezza privata è stata cioè alimentata dalla crescente povertà della vita condivisa. Questa crescita è definita difensiva proprio perché è generata da individui ansiosi che competono per difendersi privatamente dal degrado comune. Un sistema in cui si produce e consuma sempre di più per sfuggire al declino collettivo ha prevedibilmente finito per destabilizzare anche gli ecosistemi, oltre alla nostra felicità. Negli ultimi 30 anni abbiamo emesso tanta CO2 quanta nei due secoli precedenti e la felicità è declinata in porzioni enormi della popolazione mondiale.
Insomma, è il degrado di ciò che condividiamo che alimenta l’ansia di possesso che ci sta spingendo a assediare la biosfera. Speriamo di cavarcela grazie ai soldi ma finiamo per distruggere i beni comuni, al cui degrado cerchiamo di sfuggire. La corsa a cercare soluzioni private a problemi collettivi è il problema e non la soluzione. Possiamo rompere questo circolo vizioso con le politiche per i beni comuni accennate prima. In questo modo possiamo ottenere sia la sostenibilità che vite migliori. Per farlo abbiamo bisogno di democrazie che prendano le decisioni giuste. Quelle attuali non sono in grado di farlo e vanno radicalmente riformate. Questo libro è un manifesto dei cambiamenti politici, sociali ed economici che sono possibili e necessari per smetterla di sfidare la natura, incluso quella umana.
*Il testo è stato presentato al Monfalcone Geografie Festival in dialogo con Alberto Garlini. Stefano Bartolini, professore di Economia politica ed Economia sociale all’Università di Siena, è autore del saggio Aboca “Ecologia della felicità. Perché vivere meglio aiuta il pianeta”.