“E allora ho capito. Dai loro sguardi, ho capito. Ho capito che il cinematografo avrebbe cambiato molte vite, a cominciare dalla mia. Che ‘le fotografie che si muovono’ potevano raccontare qualunque storia anche a chi non era in grado di leggere…”. Queste parole sono di Maria, la protagonista di Cinquecento catenelle d’oro. La potenza del cinema, ai suoi esordi, era racchiusa in questa sorta di potere magico: raccontare a chiunque, sopperire all’incapacità di saper leggere mostrando storie fatte di immagini in movimento. Il primo cinema, tra l’altro, era muto, la narrazione scorreva in orizzontale, come una linea retta, dal principio alla fine.
Con l’avvento del sonoro, nel 1927, si sommarono, alle sole immagini, nuove possibilità espressive e la pellicola diventò un fenomeno culturale di massa.
Spesso mi chiedono quale sia la differenza tra lo scrivere per il cinema e il romanzo. Le differenze sono tantissime, a partire dalla tecnica di racconto, fino al fatto che la scrittura di un romanzo è un’avventura solitaria, mentre la sceneggiatura è un lavoro di squadra che deve tener conto di mille variabili come il budget, gli attori chiamati a interpretare i vari ruoli, il regista che trasporrà le parole in immagini. Ma, alla fine, la differenza sostanziale è proprio in quest’ultimo passaggio: dalla parola all’immagine.
Nel cinema, il racconto continua a essere lineare, scorre in avanti o a ritroso, come la pellicola di una volta, oggi sostituita dal digitale. La storia è visualizzata, diventa viva e, proprio come la vita, ha una sua realtà ineluttabile: i volti degli attori, le azioni che compiono, i paesaggi e i passaggi di tempo… tutto è mostrato, tutto ha una forma definita dal regista. C’è la comprensione immediata della storia, limitata a ciò che si è deciso di mostrare. Ma proprio la “forma” del film va a sottrarre al pubblico una delle componenti caratteristiche del romanzo: l’immaginazione. È dalla parola, scritta o pronunciata, e non dall’immagine, a derivare l’immaginazione. Se leggiamo “vide un cane nero e minaccioso”, andiamo immediatamente a immaginare quel cane. E per ciascuno di noi sarà un cane diverso. La parola è suono, come la musica, e richiama l’immaginario, il sogno, la visione, la fantasia. L’emozione che provoca l’immagine di quel cane nero e minaccioso sullo schermo di un cinema o di un televisore, di un computer è, invece, un’emozione “pilotata” da una visione condivisa, netta, definita, reale.
Pensiamo a quando vediamo un film tratto da un libro che abbiamo letto: quasi mai i volti degli attori corrispondono a quelli che abbiamo immaginato durante la lettura, così come la loro voce, la gestualità, l’ambiente in cui si muovono.
E così mentre il “visivo”, attraverso le immagini, ti mostra una storia e la definisce, il romanzo (così come l’antico racconto orale) attraverso la parola, te la lascia immaginare.
Nel nostro cervello, la capacità di immaginare risiede nelle cellule a griglia, dove i neuroni ‘Gps’ funzionano come un sistema interno di coordinate in grado di orientarci come un navigatore mentre ci muoviamo nello spazio circostante. Non si contrappone alla realtà, ma ha il compito di rendere la vita vivibile, di avvicinare l’uomo al suo desiderio di realizzazione. È lo strumento mentale che permette all’uomo di inventare macchine, creare opere d’arte e, più in generale, avere un’eccezionale flessibilità di comportamenti.
Ma, soprattutto, dove si spiana il territorio dell’immaginazione, lì c’è il pericolo per ogni tipo di potere. L’immaginazione è rivoluzionaria, è la radice del cambiamento, delle possibilità future e, soprattutto, della maniera per raggiungerle. Al contrario della fantasia, dalla quale comunque deriva, l’immaginazione elabora strategie, scandaglia i modi per realizzare il sogno, migliorare la vita, sconfiggere i soprusi. Per un fantastico circolo virtuoso, l’immaginazione elabora l’arte e l’arte fa scaturire l’immaginazione. Ed è per questo che l’arte, la scrittura in primis, fa paura al potere, ai regimi totalitari, a chiunque abbia interesse affinché la realtà non cambi e non evolva. I regimi del passato proibivano e bruciavano i libri, proprio per troncare le fonti dell’immaginazione. Gli integralisti religiosi, negli ultimi decenni, hanno distrutto monumenti e opere d’arte per lo stesso motivo.
E sempre per motivi di “conservazione” dei privilegi, fino a pochi decenni fa, perfino da noi in Italia, la cultura, lo studio, perfino la lettura era appannaggio di una ristretta cerchia di potere prettamente maschile. La donna dotata di cultura e, di conseguenza, di immaginazione era vista con grande preoccupazione, se non con terrore. Nei libri, nella musica, nell’arte in genere, si annidava il diavolo con le sue tentazioni, dicevano, proprio per distogliere le donne dalle attività intellettuali e tenerle a bada nell’angusto recinto di obbedienza a loro riservato.
Ed è proprio in questo ambito che è ambientata la storia di Cinquecento catenelle d’oro: un’Italia meridionale e rurale di fine ‘800, dove le donne dovevano servire i mariti e fare figli, senza aver diritto a sognare una vita diversa. Ma, grazie a una Baronessa illuminata, Maria Pepe, la protagonista, impara a leggere. E a immaginare. E, da quel momento, riesce a vedere i limiti dentro i quali hanno recluso la sua vita e quella di tante altre donne. E a cercare il modo per uscirne. Cercheranno di farla rientrare nei ranghi della “sensatezza”, del pensare comune, fino a cercare di dichiararla pazza. Ma l’immaginazione è rivoluzionaria, è la radice del cambiamento, delle possibilità future e, soprattutto, della maniera per raggiungerle…
*Salvatore Basile è nato a Napoli e vive a Roma, dove fa lo sceneggiatore e il regista. Ha scritto e ideato molte fiction di successo. Con Garzanti ha pubblicato “Lo strano viaggio di un oggetto smarrito” – finalista premio Flaiano 2017, premio Letteraria 2017, super-vincitore premio Fenice Europa 2017 – e “La leggenda del ragazzo che credeva nel mare” (2018).