A Dio piacendo si vanno moltiplicando le voci allarmate – e finalmente trovano qualche eco pubblica anche nei media mainstream informati a una sorta di pensiero unico che sembra conoscere solo il linguaggio delle armi – per l’escalation militare, culturale, verbale. Quella cui Domenico Quirico – un corrispondente di guerra avvezzo agli orrori di tanti conflitti sanguinosi – ha dato nomi quali “ebbrezza militarista”, “esaltazione collettiva”, “revival industrial-guerriero”, “sconclusionato dannunzianesimo fuori tempo”.
Di chi sia la responsabilità prima lo sappiamo ed è offensivo sospettare che non ci sia chiaro o che si abbia esitazioni a prendere la parte della vittima ucraina. È sul “come” che si può e deve discutere, non sul “se” aiutare l’aggredito. Non possiamo ignorare che l’escalation ha prodotto una svolta e cioè che, per dichiarazione delle stesse parti in conflitto, l’obiettivo non è il negoziato, ma la vittoria sul campo, la sconfitta del nemico. Naturalmente facendo ricorso a un sofisma: elevare il livello dello scontro armato al fine di ottenere la pace, negoziando da posizioni di forza. Non dobbiamo avere paura delle parole, ma confrontarci con la realtà: non è necessario convenire sulla cosiddetta “guerra per procura” tra le grandi potenze, Russia e occidente, ma è innegabile che tale è la sostanza. Ovvero che sempre più si fa ravvicinato e diretto il conflitto tra loro e che la posta in gioco, ben oltre l’Ucraina, è la lotta per il dominio nel nuovo ordine mondiale. La Russia lo dimostra con i suoi comportamenti, ma lo confermano piuttosto esplicitamente americani e inglesi.
A fronte di tale mutamento, di grado e di natura, della guerra, si pongono alcune questioni ineludibili. La prima: gli analisti, sino a ieri, sostenevano che non si deve prendere troppo sul serio la minaccia dell’arma atomica. Al limite cui ci si è spinti possiamo dirci sicuri che le cose stiano ancora così? Che sia un mero bluff?
Seconda questione: abbiamo giustamente stigmatizzato l’ipocrisia russa nell’esorcizzare la parola “guerra”. Vogliamo riconoscere che ora ciò vale anche per noi? Rifornendo armi sempre più sofisticate e potenti e mirando alla vittoria militare, come altrimenti la vogliamo chiamare? Non senza implicazioni sul piano della compatibilità costituzionale, sempre più stiracchiata, con il nostro articolo 11 della Costituzione.
La terza questione attiene alla discussione tabù sulle cause remote del conflitto: ho l’impressione che proprio l’angosciosa evidenza dello sviluppo incrementale di esso abbia indotto ora qualche voce autorevole, informata e certo non sospetta di anti-americanismo come quella di Giuliano Amato a confessare onestamente di nutrire un senso di colpa e di riconoscere l’errore della inopportuna estensione della Nato (non della Ue) sino ai confini della Russia. Tesi sino a ieri bollata come priva di fondamento e appannaggio dei detrattori dell’Occidente inclini al giustificazionismo della guerra scatenata da Putin.
Quarto nodo: si dice che noi possiamo solo sostenere militarmente gli ucraini, ma che tocca a loro decidere se, quando e su che basi disporsi a negoziare. Non mi sfugge: l’argomento è delicato, ma non va eluso. Considerato che noi stiamo dalla loro parte, che ormai, fuor di ipocrisia, partecipiamo seppur indirettamente al conflitto e che la partita si è dilatata a dismisura – il nuovo ordine mondiale e addirittura lo spettro del conflitto globale nel quale in gioco è non meno che la sorte dell’umanità –, non è fuori luogo osservare che, pur in spirito di solidarietà con il popolo aggredito, tocchi anche a noi ragionare e discutere (sia chiaro: in primis con loro) la linea di comportamento da seguire. Del resto, già lo abbiamo fatto, rifiutandoci, giustamente, di acconsentire alla reiterata richiesta della no-fly zone che dischiuderebbe alla guerra mondiale. Come se, salvo quel limite, il resto non ci riguardasse.
Quinto: riesce sempre più evidente e forse va portata in superficie, non dissimulata, la divergenza di interessi strategici (geopolitici, economici, culturali) tra Usa e Regno Unito da un lato e Ue dall’altro. Con la cura di distinguere anziché confondere Nato e Ue. Se così non fosse che senso avrebbe invocare retoricamente la prospettiva di una difesa comune europea? Posto che, come si è detto, in discussione è il nuovo ordine mondiale e che il nostro approccio sarebbe di stampo multipolare, come non rilevare la contraddizione della contestualità della missione di Guterres a Mosca e a Kiev con il mega vertice Nato di Ramstein? Onu, Ue, Nato: si obietta che l’Italia non conta nulla. Può darsi, ma ciò non ci esime dal dovere di dire la nostra dentro organizzazioni internazionali delle quali siamo formalmente membri. Certi zelanti esegeti della seconda parte del ricordato articolo 11 che autorizzerebbe la fornitura di armi al conflitto non sembrano altrettanto solleciti e loquaci sul punto, prescritto appunto da quella norma.
Ha ragione chi chiede di discutere di tutte queste cose in Parlamento. Se non ora quando? Davvero possiamo contentarci di una remota deliberazione circa l’invio di armi leggere, il 1° marzo scorso, a meno di una settimana dall’inizio dell’invasione, senza un confronto alto sul mondo che sarà? Come ignorando che la guerra ha preso ben altra piega, dimensione, portata. Sarebbe una palese contraddizione con la nostra rivendicata differenza (Occidentale) rispetto ai regimi autocratici.