Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati uccisi da Cosa Nostra per ritorsione. Col Maxiprocesso avevano fatto inceppare l’infallibile macchina dell’impunità dei boss, che quindi si sono vendicati. Ma poi sono stati sconfitti: Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti da detenuti. Giovanni Brusca e tutti gli altri killer hanno dovuto collaborare con la giustizia per avere dei benefici carcerari. Cosa Nostra, nella sua derivazione militare, è ormai da tempo ai suoi minimi storici. I cattivi, tutti i cattivi, sono stati battuti. È vero, gli eroi sono morti, ma è proprio per questo che bisogna onorarne ogni anno l’estremo sacrificio: perché non resta nient’altro da fare.
Trent’anni dopo è questo il racconto ufficiale di quella stagione che fa da cerniera tra la Prima e la Seconda Repubblica. Un racconto emozionante, tragico e per certi versi perfetto perché alla fine vincono i buoni. Questo tipo di narrazione, però, ha un difetto: non corrisponde alla verità.
Intendiamoci: sulle stragi degli anni 90 non esiste una verità, totale e definitiva. Esistono pezzi di verità, punti fermi dai quali poi si dipanano decine di domande. Sono buchi neri, che trent’anni di indagini e processi non sono bastati a illuminare. E che, a ogni anniversario, vengono completamente ignorati. Per raccontare Falcone e Borsellino le istituzioni hanno preferito incentivare un racconto che omette tutti gli interrogativi legati alle stragi. Una narrazione rassicurante che cancella tutto quello che sul 1992 semplicemente non torna. O che non si può riportare.
È per questo motivo che abbiamo deciso di fare Mattanza, il podcast del Fatto Quotidiano sulle stragi del ’92: si può ascoltare sul nostro sito e sulle principali piattaforme. Non è solo il racconto di tutto quello che sappiamo sulle bombe che hanno cambiato la storia d’Italia. È soprattutto il racconto di quello che non sappiamo. Non si tratta di teoremi o delle cosiddette “versioni alternative”, per il semplice fatto che non esistono versioni alternative sulle stragi del ’92. Esistono fatti, dati concreti, risultanze processuali, dichiarazioni riscontrate di collaboratori di giustizia che ci suggeriscono come su Capaci e via D’Amelio – e a seguire sulle bombe del ’93 – siamo soltanto convinti di sapere tutto. E invece sappiamo ancora poco. Per esempio: come riuscì un detenuto come Elio Ciolini, un estremista di destra vicino ai servizi di mezzo mondo, a prevedere l’omicidio di Salvo Lima e poi le stragi dei mesi successivi, comprese quelle che colpiranno i civili nel ’93? Chi era la fonte dell’agenzia Repubblica (niente a che vedere col quotidiano) che due giorni prima di Capaci ipotizzava un “bel botto esterno” in grado di influenzare la corsa al Quirinale?
E poi: non è mai stato chiarito fino in fondo perché Riina decise di richiamare Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano da Roma, dove Falcone girava spesso senza scorta, per organizzare un attentato clamoroso ma pure difficilissimo e quindi con un’alta percentuale di fallimento. Non sappiamo perché le agende elettroniche di Falcone furono manomesse, addirittura molti giorni dopo la strage di Capaci, ma proprio quando Paolo Borsellino diceva pubblicamente di essere un “testimone” della morte del suo collega. Ma un testimone di cosa? Ignoriamo il motivo per cui durante i suoi ultimi 57 giorni di vita lo stesso Borsellino si sia comportato come un condannato a morte.
Perché era sicuro di morire? Soltanto perché era un eroe votato al martirio, come ce lo rappresentano nella versione ufficiale di questa storia? O perché, evidentemente, aveva scoperto qualcosa di potenzialmente sconvolgente e dunque mortale? Trent’anni dopo non siamo ancora riusciti a capire con certezza cos’è che aveva scoperto Borsellino. Ma sembra non interessare più a nessuno. In questo senso Mattanza non è solo un podcast, un prodotto giornalistico, ma è anche la risposta a una necessità: mettere in fila tutti gli interrogativi che negli ultimi trent’anni lo Stato ha preferito dimenticare. Perché non ha le risposte. O, magari, perché non è il caso di darle.