Elena Basile è una diplomatica di grande esperienza e ha servito come capo missione sia in Svezia che in Belgio.
Ambasciatrice con una predilezione per la scrittura, ha pubblicato diversi libri e un romanzo recentemente con la Nave di Teseo. Di cosa parla?
È un romanzo psicologico, che in alcuni suoi aspetti potrebbe essere letto come un “ noir”. La storia di una famiglia si svolge tra Napoli e Roma, in scenari tranquilli, riunioni familiari borghesi tra i due genitori anziani ed i figli ormai adulti con i rispettivi consorti. Rimane tuttavia nell’aria un vago presentimento di un crimine che avrà poi il suo momento catalizzatore. La narrazione avviene anche attraverso il moltiplicarsi di voci in quanto ciascun membro della famiglia racconta la sua versione, come vede e sente gli affetti vicini. La realtà sembra intraducibile in una unica storia. Essa è piuttosto l’incontro tra le percezioni individuali dei genitori come del fratello e della sorella. Tutti sono animati da passioni e stati d’animo che non si sa fino all’ultimo se abbiano o meno un fondamento nella realtà.
I personaggi femminili hanno nel romanzo un ruolo centrale. Perché?
Sia nelle raccolte di racconti “Donne nient’altro che donne” e “Miraggi” sia nel romanzo “Una vita altrove” come in “In Famiglia” le donne sono protagoniste. Non credo in una letteratura femminista in quanto non mi piacciono le classificazioni rigide e credo l’ispirazione debba essere libera. È vero tuttavia che le donne sono protagoniste della nostra epoca e di un’importante transizione. Hanno personalità e psicologie più complesse, più interessanti da esplorare rispetto a quelle degli uomini.
Cosa ha significato per lei la scrittura che ha accompagnato la sua carriera di diplomatica?
Ho scritto pochi libri, cinque, se teniamo conto di “Uno strano trio”che sarà pubblicato l’anno prossimo con la casa editrice La Lepre. La scrittura è stata un’ancora al fine di affrontare le tante difficoltà di un lavoro a maggioranza maschile che ti costringe a cambiare Paese ed abitudini ogni tre, quattro anni. Essa ha creato uno spazio di autenticità necessario al fine di contrastare la superficialità inevitabilmente inerente ad un lavoro di relazioni pubbliche. Sebbene le questioni di genere abbiano acquisito un importante riconoscimento, in Italia le donne Capo Missione sono ancora molto poche. All’incirca l’8% rispetto al 40%, obiettivo perseguito con efficacia dai paesi nordici.
Tra i suoi mandati di capo missione c’è stata la Svezia. Oggi Stoccolma sta pensando seriamente di entrare nella Nato, pensa che sia una scelta che verrà fatta senza problemi o contraccolpi interni?
Nel corso degli anni in cui ho servito a Stoccolma, la questione veniva posta all’attenzione del dibattito pubblico. Sebbene tra i Moderati, partito di centro-destra, ci fossero molti sostenitori dell’adesione, essa non fu mai veramente perseguita. Si era consapevoli che un referendum avrebbe avuto una maggioranza della popolazione contraria. L’eredita di Olof Palme è rimasta viva per molto tempo nella società civile svedese sebbene gli errori dello stato sociale, la debolezza di settori come l’istruzione e la sanità, le necessarie riforme finanziarie degli anni novanta abbiano offuscato il carisma di un Leader celebrato in Europa, mitizzato anche per la sua fine atroce. Anne Linde Ministro degli Esteri socialdemocratico ancora a febbraio, ma prima dell’invasione della Russia in Ucraina, dichiarava che la neutralità restava un cardine della politica estera svedese. Il partenariato con la NATO è stato tuttavia portato avanti con determinazione sia dai “moderati” che dai socialdemocratici. La guerra in Ucraina credo abbia modificato il sentire popolare. Esiste ancora un’opposizione all’entrata nella NATO con manifestazioni antiamericane in piazza di una sinistra più radicale. La destra estrema “gli svedesi democratici” come si fanno chiamare, sono oggi per l’adesione. La Prima Ministra Anderson guiderà il Paese verso l’entrata nella NATO. Il Coordinamento con la Finlandia è da questo punto di vista essenziale.
L’ abbandono di una tradizione di neutralità durata più di 200 anni che ha radici profonde nella cultura politica del Paese avrà certamente dei contraccolpi e potrà essere un fattore divisivo della società. La decisione di non indire un referendum mi sembrerebbe una conseguenza della consapevolezza delle divisioni esistenti e di come potrebbero essere strumentalizzate da eventuali interferenze esterne.
La guerra in Ucraina sembra aver modificato in profondità la diplomazia internazionale. Sembra anche a lei così, che differenze vede tra la diplomazia classica e quella di queste settimane?
Innanzitutto vorrei precisare che intervengo sul suo giornale come scrittrice e non come diplomatico. Le mie sono opinioni del tutto personali, non rappresento posizioni governative. Sono stata inoltre come sa per motivi di salute e personali lontana dagli uffici ministeriali, non ho accesso a documenti riservati o a fonti dell’intelligence. Credo che la diplomazia abbia come ruolo fondamentale la ricerca della mediazione, possibile soltanto se si individua un punto di incontro tra interessi geopolitici opposti. L’obiettivo è costruire pace e sicurezza stabilizzando le aree regionali. Mi piace contrapporre l’Europa dell’equilibrio bismarchiano a quella Guglielmina che ha lasciato via libera all’ego delle potenze europee e, permettendo una corsa massiccia gli armamenti, ha preparato la strada al primo conflitto mondiale. Credo che oggi siamo in una situazione inquietante. La diplomazia non deve abbandonare il costante dialogo anche col peggior nemico al fine di permettere la fine di questa orrenda carneficina del popolo ucraino.
Le sembra proficuo il modo in cui la diplomazia occidentale e in particolare quella europea ha reagito all’invasione russa? Cosa poteva essere fatto diversamente?
Come tante altre voci trasversali nel panorama politico italiano, da quelle del mondo cattolico a quelle realiste della destra moderata, alla sinistra riformista e radicale, credo che la diplomazia avrebbe potuto fare molto per prevenire il conflitto.
L’Europa non avrebbe dovuto lasciare la situazione incancrenire in ucraina. Gli accordi di Minsk andavano applicati. Non si doveva permettere la violazione durata anni del principio della protezione delle minoranze linguistiche, parte integrante della nostra civiltà giuridica e politica. Sono inoltre d’accordo con i principi enunciati dal Presidente Macron. Vorrei vedere una diplomazia europea in azione, in grado di influire maggiormente su un conflitto che si svolge sul territorio europeo. Ha conseguenze nefaste per il popolo ucraino, colpisce duramente gli interessi geopolitici, economici e culturali dei popoli europei. Il presidente Mattarella ha invocato lo spirito di Helsinki. Il dialogo deve continuare senza arroganza revanchista e senza volontà punitive nei confronti dell’avversario. Sappiamo cosa il trattato di Versailles ha generato. Abbiamo bisogno di un’iniziativa politico-diplomatica in grado di fare iniziare negoziati seri, che permetta una descalation ed un cessate il fuoco.
Vede anche lei fronteggiarsi sostanzialmente due linee nella politica occidentale: quella che, sostenendo l’Ucraina, punta a sconfiggere la Russia e quella che invece vorrebbe semplicemente trovare un accordo di pace?
Credo che non si possa rinunciare all’elemento della forza nella politica internazionale. Non sono una pacifista. Hard e soft powers sono complementari. La forza è tuttavia utile nell’ambito di una strategia organica che individui obiettivi realisti, programmati in un quadro temporale preciso. La yubris di cui fanno prova a volte gli anglosassoni, (purtroppo risonante con eco stridenti persino presso alcuni istituti di ricerca) non sembrerebbe avere un reale fondamento nella realtà.
Al netto della propaganda, i punti di vista che si confrontano in modo serio sono i seguenti. Da un lato una strategia che vede nell’elemento militare la possibilità di costringere Putin ad accettare condizioni di pace punitive ed a vantaggio di Kiev. Dall’altro una diplomazia che teme l’escalation militare per le atroci sofferenze inflitte al popolo ucraino ed è scettica circa la possibilità di indurre l’avversario a più miti pretese aumentando l’offensiva militare. A volte accade il contrario. Le perdite di vite umane irrigidiscono le posizioni. Non bisogna dimenticare inoltre il rischio di un allargamento del conflitto e dell’utilizzo dell’ama nucleare. Trovo inquietante la leggerezza con la quale alcuni analisti parlano delle minacce nucleari come di un bluff della Russia. Vogliamo andare a scoprire se si tratti di un bluff o meno? Ed a che prezzo , con quali rischi? Sono d’accordo invece con il politologo realista americano, Mearsheimer, che ricorda come un dittatore non possa perdere. Tornare a Mosca senza alcun ritorno dopo le atroci perdite umane e la profonda crisi economica e sociale causata al suo popolo sarebbe la fine dello zar. Potrebbe pertanto essere indotto in caso di sconfitta, percependo una minaccia esistenziale alla sicurezza del proprio paese e per se stesso, ad utilizzare l’arma nuclere tattica. È quanto afferma John Mearsheimer ed è difficile non comprendere il suo ragionamento.
Sono due linee che attraversano anche il nostro Paese e l’alleanza Atlantica?
La libertà di manovra di un singolo stato è relativa. La politica estera italiana ha i vincoli europei e atlantici. In Europa il nostro Governo può svolgere un ruolo attivo e riconosciuto accanto alla Francia e alla Germania per temperare alcune velleità del gruppo dei Paesi nordico-baltici e dell’Est. Vede io ero in Svezia nel 2013 ai tempi del partenariato orientale con l’Ucraina. Avevo un coordinamento costante con gli Ambasciatori francese e tedesco.
Berlino, Parigi e Roma condividevano un approccio moderato al dossier insieme ad altri Paesi europei che ci seguivano in netta antitesi con Polonia , Svezia e gli altri membri di quella che un tempo un po’ scherzosamente veniva chiamata la “ Lega Anseatica”. C’ era un’Europa allora che aveva il compito di temperare l’ azzardo.
Fummo sconfitti. Grazie all’intervento diretto americano prevalse un’altra linea . Ed essa fu forse l’ inizio di un percorso che ci avrebbe portato all’orrore odierno. Del resto nel 2014 Kissinger aveva già previsto questo conflitto. L’ occidente avrebbe dovuto ascoltare Henry Kissinger. Non Putin ma Henry Kissinger. Quanto alla NATO è chiaro che la potenza egemone sono gli Stati Uniti e sarebbe irrealista pensare di condurre una politica indipendente dall’influenza di Washington. E’ vero tuttavia che in altri periodi c’è stata una maggiore dialettica nell’ambito dell’alleanza. Se i Paesi fondatori dell’Europa si coordinassero per dare vita ad una strategia in grado di individuare gli interessi reali Europei, geo-politici, economici, energetici e culturali, ( a volte non pienamente coincidenti con quelli Statunitensi) potrebbero influire sulle dinamiche atlantiche ed acquisire la tanto declamata autonomia strategica di cui una difesa europea non potrebbe fare a meno.
Come si esce da questa guerra, con quali politiche e con quali futuri assetti del mondo?
Purtroppo è difficile non prevedere una nuova guerra fredda, una divisione in blocchi che farà fare all’umanità passi indietro da gigante, limitando il libero commercio, affamando i paesi più vulnerabili, provocando una crisi economica che potrebbe divenire strutturale, rendendo la cultura più provinciale, spingendo la comunicazione verso una sempre maggiore propaganda.
L’occidente non dovrebbe poter permettere un tale regresso. Il dialogo, il mutilateralismo, i principi contenuti nell’atto di Helsinki sono nella nostra genetica e dobbiamo tutelarli contrastando le nuove divisioni e tensioni che si profilano all’orizzonte. Gli insegnamenti gramsciani conservano la loro attualità: al pessimismo dell’intelligenza dobbiamo affiancare l’ottimismo della volontà.