La mia strada si è intrecciata con quella di Falcone e Borsellino quando – dopo la strage di Capaci e via D’Amelio – decisi di fare domanda al Csm per essere trasferito da Torino a Palermo come capo della Procura. Ma le nostre strade si erano intrecciate già prima, durante gli anni (1986-90) in cui ho fatto parte del Csm. Quattro anni caratterizzati dal susseguirsi di casi con forti ripercussioni sull’antimafia siciliana.
Il primo caso riguarda Paolo Borsellino. La maggioranza del Csm lo nomina capo della procura della Repubblica di Marsala, preferendolo a un magistrato molto più anziano ma pressoché ignaro di mafia. Anche in forza di una direttiva specifica del Csm (varata da poco) che per gli incarichi in zona di mafia disponeva di privilegiare il criterio della professionalità.
Nella vicenda irrompe Leonardo Sciascia, con un editoriale intitolato “I professionisti dell’Antimafia”, che accusa Borsellino, se pure in maniera indiretta, di essere un carrierista, uno che in nome dell’antimafia sgomita per scavalcare colleghi più anziani e meritevoli. Un’accusa assurda. Lo stesso Sciascia, qualche anno dopo, ammetterà di essere stato male informato. Il danno provocato è comunque enorme. Quella definizione di “professionisti dell’antimafia” affonderà un bersaglio che non era nel mirino di Sciascia. Un bersaglio grosso, Giovanni Falcone.
Nel 1987, Nino Caponnetto, conseguito con il pool dei giudici istruttori di Palermo (da lui diretti) lo straordinario risultato del “maxiprocesso”, lascia Palermo convinto – come tutti – che il suo testimone passerà a Falcone. Ma non va così, e l’articolo di Sciascia – strumentalizzato in modo spregevole – ha un peso decisivo. La maggioranza che aveva votato Borsellino perde pezzi e il risultato è a dir poco sconcertante: il più bravo nell’antimafia, il grande protagonista del maxiprocesso, viene scavalcato da un magistrato che di processi di mafia non ha esperienza, ma può vantare un titolo che fa tremare i mafiosi di paura: quello di essere un signore molto avanti negli anni. Che oltretutto, nell’audizione avanti al Csm, aveva sostenuto senza perifrasi che non avrebbe seguito i metodi del pool di Falcone. Nel suo ufficio non dovevano più esserci specialisti che si occupassero solo di mafia, ma magistrati destinati a fare di tutto un po’.
Commentando poi la funesta vicenda, Borsellino parlerà di “giuda”. E dirà che Falcone aveva cominciato a morire in quel momento. Per quanto mi riguarda rivendico con orgoglio di aver votato a favore di Borsellino prima e di Falcone poi.
Attenzione, la scelta fra Meli e Falcone fu una vera bagarre. Eppure riguardava un ufficio ormai in via di estinzione con l’entrata in vigore – di lì a poco, nel 1989 – del nuovo codice di Procedura penale, che difatti ha cancellato i giudici istruttori. Il che rende evidente come il punto del contendere non fosse tanto il nome del successore di Caponnetto quanto il metodo di lavoro del pool, che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxiprocesso.
Al di là della persona, la scelta di Meli ha quindi un chiaro significato politico: lo Stato anziché proseguire sulla strada del pool di Falcone che stava portando alla sconfitta della mafia, rinuncia a combattere. Mentre sul Palazzo di giustizia di Palermo si addensano veleni, corvi e lettere anonime, soprattutto contro Falcone. Accusato delle più svariate nefandezze, inventate per fargli pagare la sua vera “colpa”: aver osato inquisire (oltre ai mafiosi di strada) “colletti bianchi” potentissimi, collusi con la mafia, del calibro di Ciancimino padre, i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania.
Intanto Borsellino, con due interviste del 20 luglio 1988, lancia un j’accuse molto pesante: “C’è stato un taglio netto con il passato… Adesso si tende a dividere la stessa inchiesta in tanti tronconi e, così, si perde inevitabilmente la visione del fenomeno. Come vent’anni fa… le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come prima, più di prima… Ho la spiacevole sensazione che qualcuno voglia tornare indietro”.
Reazioni? Sì, ma contro… Borsellino. Il Csm apre un procedimento para-disciplinare, perché le sue denunzie non hanno seguito le vie istituzionali (la prova che se c’è un servizio da rendere anche i burocrati più ottusi sanno lavorare di fantasia…). Ma i giochi ormai sono fatti: il pool è morto. Abbasso Falcone e viva la mafia.
In conclusione, a quelli della mia generazione che l’hanno dimenticato e ai giovani che non lo sanno, diciamo che Falcone e Borsellino, se oggi – da morti – sono giustamente osannati, furono invece umiliati e discriminati quando erano vivi. Vivi e scomodi. Perciò maltrattati.