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Giustizia, i quesiti che neanche Salvini ha ben compreso

8 Giugno 2022

Un paio di settimane fa, Matteo Salvini esultava sui social per l’arresto di una serie di presunti spacciatori di Bologna. Secondo lui, le manette scattate ai loro polsi rappresentavano una sua vittoria. Tra gli arrestati vi erano alcuni componenti della famiglia a cui aveva citofonato, durante la campagna elettorale per le Regionali 2020, per chiedere a favore di telecamere: “Ci hanno segnalato che da lei parte lo spaccio della droga nel quartiere, è giusto o sbagliato?”.

Ieri, in occasione di 38 arresti a Trieste per l’importazione di oltre quattro tonnellate di cocaina, il locale procuratore, Antonio De Nicolo, ha ricordato che se domenica nel quesito referendario sull’abrogazione della custodia cautelare in caso di pericolo di reiterazione del reato vincesse il Sì, molti degli “arrestati dovrebbero essere rimessi in libertà con tante scuse da parte del popolo italiano”. Questo perché il referendum rende impossibile far scattare le manette in attesa del processo a chi rischia di rendersi protagonista degli stessi reati di cui è già accusato. Le uniche eccezioni sono previste per i crimini commessi con violenza o per la criminalità organizzata. Ma in presenza del solo traffico di stupefacenti, ha spiegato il procuratore, “le misure cautelari cadrebbero a prescindere dalle quantità anche mostruose” vendute.

Certo si potrebbe arrestare ancora per pericolo di fuga o d’inquinamento delle prove. Ma se le prove, come in questo caso, provengono dal lavoro di un infiltrato delle forze dell’ordine e dalle intercettazioni è ben difficile pensare che possano essere artefatte. E se poi gli arrestati non dispongono del denaro e degli appoggi necessari per garantirsi una lunga latitanza (che vanno dimostrati) è pressoché escluso che si diano alla macchia. Per questo, come ricordano gli stessi promotori del referendum sul loro sito, la maggior parte degli arresti in Italia è motivato con la possibile reiterazione del reato. Perché chi vive di crimini e non lavora, se resta fuori con elevata probabilità continuerà a commetterli.

Eccolo qui il paradosso di Matteo Salvini. Quando ha accettato di appoggiare i Radicali nei loro referendum sulla Giustizia, ha deciso con la pancia e non con il cervello. Ha firmato, ma non ha ben capito cosa stava firmando. Allora gli italiani erano giustamente indignati per lo scandalo Palamara. La magistratura, come categoria, aveva dato una pessima prova di sé. E per molti politici quella era l’occasione per prendersi una rivincita sulle toghe. Così Salvini ha aderito pensando solo alla possibile vittoria e poi, quando si è reso conto che la raccolta firme andava a rilento, ha spinto cinque diversi Consigli regionali a chiedere i referendum.

Ma il clima col tempo è cambiato. C’è stato il Covid, è arrivata la guerra e la crisi economica. Così, dicono i sondaggi, è difficile che i referendum superino lo scoglio del quorum. E a ben vedere, questo per Salvini è se non un bene, almeno un male minore.

Non è difficile prevedere cosa accadrebbe se martedì, con una vittoria del Sì, l’opinione pubblica si trovasse a vedere in tv le immagini di migliaia di detenuti che escono a frotte dalle prigioni. Tra di loro ci sarebbero spacciatori, autori di furti in appartamento, truffatori, stalker, politici e funzionari corrotti. Anche gente arrestata in flagranza. Il tutto suggellato dal faccione del leader della Lega. Ovvero, l’uomo che inneggiava alla sicurezza dei cittadini e che citofonava ai presunti venditori di droga. Più che una vittoria referendaria, una débâcle politica destinata a fare storia.

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