Dal 10 al 12 giugno si terrà a Roma, presso la Villa Lazzaroni, “Là Fuori”, il festival della scienza e dell’arte. Tre giorni di appuntamenti gratuiti che uniscono scoperta, arte e sperimentazione. Tra gli ospiti l’astrofisico Amedeo Balbi, l’attrice Federica Rosellini, lo studioso di buchi neri Gabriele Ghisellini, l’attore Roberto Herlitzka, il jazzista e chimico Umberto Petrin. Il festival è il proseguimento di un progetto – curato da Edwige Pezzulli e Matteo Alparone – portato avanti nelle scuole per avvicinare bambine e bambine tra gli 8 ai 12 anni al pensiero scientifico tra STEM, teatro e musica.
Why so few? Si domandava la sociologa Alice Rossi in uno dei primi articoli sul tema donne e scienza. Era il 1965, e le ricercatrici in scienze negli Stati Uniti sfioravano il 9%.
Oggi la situazione sembra essere differente: il 33% della comunità scientifica europea è composto da donne e in alcuni dipartimenti italiani, come quello di chimica o di biologia, si laureano più studentesse che studenti.
I dati ci confortano, quindi, ma mostrano anche un lato meno rassicurante. Uno dei fenomeni più famosi e persistenti, infatti, è il cosiddetto effetto forbice: dottorandi e dottorande sono presenti tra le mura degli enti di ricerca più o meno in egual misura, come accade per chi ha un assegno di ricerca. Più si va avanti nella carriera accademica, però, più le ricercatrici e professoresse diventano poche.
Il mondo della scienza assomiglia a un rubinetto che perde donne a ogni salto di carriera, talenti che potrebbero fare la differenza nella produzione del sapere scientifico e che invece abbandonano questo percorso per una serie di ostacoli più o meno invisibili. Tra le tante barriere di cui spesso si sottovaluta la portata svettano gli stereotipi e i pregiudizi di genere, che possono produrre un impatto reale nella vita delle ricercatrici fuori e dentro le comunità scientifiche.
Pregiudizi di genere nella scienza
Nel 2012 uno studio portato avanti dalla psicologa Moss-Racusin e il suo team ha mostrato con evidenza che chi fa scienza non si spoglia dei propri valori e contaminazioni culturali, e che se nella nostra società viviamo immersi nei pregiudizi di genere, questi si possono manifestare anche all’interno delle comunità scientifiche. La psicologa ha prodotto e inviato un curriculum fittizio a quasi 130 docenti delle migliori facoltà scientifiche degli Stati Uniti, chiedendo di valutarne il profilo. Se il CV era lo stesso per tutti, a metà docenti è stato però inviato a nome di John, mentre agli altri veniva spedito da parte di Jennifer. Il risultato è sorprendente: John è stato ritenuto in media più competente di Jennifer, gli è stato offerto più spesso un lavoro e proposto uno stipendio in media il 15% superiore a quello offerto alla controparte femminile.
Le scienziate subiscono spesso selezioni più dure e, a parità di merito, i riconoscimenti tendono a essere inferiori per una semplice questione di genere. Stesso curriculum ma giudizi differenti. Due pesi, due misure. Il famoso doppio standard.
Immaginare a immaginare
Immaginate una persona di spicco della comunità scientifica, la persona più autorevole che vi venga in mente in tutta la storia della scienza.
Probabilmente l’individuo a cui avete pensato assomiglia ad Albert Einstein: uomo, bianco, anziano, geniale. Un supereroe, dotato del superpotere intelligenza-senza-limiti che, chiuso nella sua stanza a lume di candela e in preda a una febbre scientifica, scarabocchia alla lavagna per giorni le equazioni della Teoria della Relatività Generale.
Questa visione di chi fa la scienza condiziona profondamente non solo il nostro immaginario, ma anche il nostro spazio delle possibilità: potranno davvero delle bambine, che molti studi mostrano sentirsi meno intelligenti dei compagni già in età pre-scolare, riconoscersi e rappresentarsi nell’Einstein di turno? Se l’autorevolezza che sentiamo davanti ai famosi “esperti scientifici” si manifesta solo se le sembianze sono quelle dello scienziato anziano, come possiamo pensare che una donna, per di più se giovane, venga guardata con pari credibilità?
Chiederemmo infatti mai ad Einstein chi si è occupato della gestione familiare mentre trascorreva i suoi giorni a fare calcoli sullo spazio-tempo? Oppure attribuiremmo a una collega o alla moglie i meriti delle sue scoperte? La prima domanda è stata fatta all’astronauta Samantha Cristoforetti, alla vigilia della sua ultima missione in direzione della Stazione Spaziale Internazionale, la seconda questione è stata battezzata effetto Matilda dalla storica della scienza Margaret Rossiter: molte scoperte scientifiche fatte da scienziate sono state spesso attribuite, del tutto o in parte, ai loro capi, colleghi o compagni.
Scienza neutrale?
Ma perché la questione di genere nella scienza è importante?
Il motivo più semplice, ma anche il meno evidente, è che la scienza è un prodotto gli esseri umani.
Quante volte abbiamo sentito parlare del sapere scientifico come di un insieme di verità imparziali? Che la natura è fatta in un certo modo, e che la sua descrizione è indipendente da chi la fa? Una mela, in fin dei conti, cade sempre dall’alto verso il basso e mai viceversa, che sia Newton oppure una bambina a osservarla.
La situazione è però, come sempre, più complessa di quello che sembra, e la storia degli studi sulla fecondazione potrebbe aiutarci a capirne il motivo.
Uno sguardo parziale
Come ci hanno insegnato alle elementari, il processo di fecondazione potrebbe essere semplificato nel seguente modo: lo spermatozoo, unico elemento attivo, si fa strada grazie alla spinta della sua “coda” fino all’ovulo, semplice barriera, e, grazie a questa spinta, lo penetra. È così che l’ovulo viene fecondato.
Negli anni ‘80, però, un gruppo di ricerca interessato a realizzare un contraccettivo che agisse sullo sperma, osservò che la spinta degli spermatozoi è molto inferiore a quella necessaria per penetrare l’ovulo. Si capì così che l’ovulo giocava un ruolo attivo e fondamentale nella fecondazione, processo che diventava di colpo cooperativo. Oggi infatti sappiamo che sulla superficie dell’ovulo sono presenti dei recettori che rendono possibile il passaggio dello spermatozoo al suo interno.
È possibile che gli stereotipi di genere degli scienziati che hanno storicamente modellizzato la fecondazione abbiano influenzato le loro osservazioni? Lo stereotipo di ciò che è femminile – passivo, inerme – e ciò che è maschile – attivo e potente – può aver determinato la descrizione e l’interpretazione degli esperimenti? Le osservazioni sono parziali, si focalizzano su alcune variabili e ne trascurano altre e spesso ciò accade perché parziale è l’occhio di chi guarda.
La parità di genere nella scienza, quindi, gioca un ruolo fondamentale non soltanto per creare comunità scientifiche più giuste, ma anche per garantirci un sapere scientifico più ricco: se gli occhi di chi guarda e fa scienza possono condizionare la struttura, i metodi e i contenuti della scienza stessa, avere quanti più sguardi possibili, e diversificati, può allora aiutarci a costruire un puzzle più complesso e completo nella descrizione della realtà del mondo.
Edwige Pezzulli è assegnista presso l’INAF e divulgatrice scientifica. È autrice di laboratori didattici, workshop e cura progetti sul tema scienza e genere. Collabora con la Rai per il programma Superquark+ ed è autrice e conduttrice per Rai Cultura. È membro del Comitato Lazio delle Olimpiadi dell’Astronomia e scrive per Mondadori Educational. Ha vinto il Premio Nazionale per giovani ricercatori GiovedìScienza2019 ed è coautrice del libro per bambinə “Apri gli occhi al cielo” (Mondadori, 2019). È una delle fondatrici di WeSTEAM Italia, una rete di scienziate impegnate nella promozione di una scienza plurale e inclusiva.