Il 5 luglio 2021 ci lasciava Raffaella Carrà, una delle artiste più amate dal pubblico italiano. A celebrarne l’intramontabile ricordo, c’è adesso il volume di Paolo Armelli “L’arte di essere Raffaella Carrà” (Blackie Edizioni). Ne pubblichiamo un estratto dal capitolo “Sei molto più del tuo ombelico”
Carrà non conosceva la rivalità femminile, almeno così ha sempre tenuto a sottolineare. Diceva che con le donne s’intendeva subito, ma che riusciva allo stesso modo a lavorare con gli uomini, forse perché era in grado di giocare ad armi pari in un mondo, quello televisivo, dove dirigenti, manager, registi e autori sono sempre stati e lo sono ancora, a tutt’oggi, perlopiù maschi. La biondissima showgirl era convinta che più che il sesso dell’interlocutore fosse importante il talento e lo studio, quella determinazione che ti fa essere sicura delle tue scelte e delle tue possibilità. In un’intervista a Barbara Palombelli nel febbraio 2001 ha detto: “Guarda, penso proprio di aver dato libertà alle donne, di aver insegnato loro a farsi rispettare, come mi sono fatta rispettare io, sempre. Tutto mi si può dire ma non che io sia una donna oggetto”. Infatti era un vero soggetto, piena di carisma, di personalità e di un pizzico di sfrontatezza: questa era la sua formula per un’emancipazione che allora era qualcosa di astronomico, se si considera come il gender gap italico ancora oggi viva e lotti insieme a noi con una tenacia subdola. La tv italiana di quegli anni era un tripudio di figure ancillari, di signorine buonasera caste e cotonatissime, di ragazzine spesso isteriche e certamente funzionali, di vestali accollate e serissime, oppure di eccezioni come le dive alla Wanda Osiris o alla Delia Scala, a cui si perdonava un certo gusto dell’eccesso solo come bizzarria e spettacolarizzazione, che niente aveva a che fare col piano della realtà. Erano figure femminili che esistevano praticamente solo in conseguenza di un’autorizzazione maschile, e anche qui Carrà giocò secondo uno schema tutto suo. A questo proposito risuona particolarmente significativa una dichiarazione di Gianni Boncompagni, riportata da Giorgio Dall’Arti, quando ricordava il periodo in cui erano stati insieme: “Lei era una stacanovista. Io lavoravo molto poco. Lei si arrabbiava perché io guadagnavo il doppio di lei”.
“Penso che Raffaella Carrà abbia fatto più di tante femministe nella liberazione delle donne” ha dichiarato sempre al Guardian Francesco Vezzoli, artista contemporaneo raffinatissimo e al contempo super pop, che proprio a Carrà ha dedicato una parte consistente della sua tv 70, mostra del 2017 alla Fondazione Prada di Milano in cui si celebrava la mitologia nazionalpopolare del nostro Paese attraverso un estensivo lavoro di ricerca e rielaborazione negli archivi Rai. […] Forse dire che Carrà ha fatto più di tante femministe è eccessivo e antistorico, ma ha un suo fondo di verità perché la sua rivoluzione “femminista”, che non si è mai professata tale, è stata una specie di pervasiva lotta silenziosa, uno sradicamento surrettizio, pervicace e costante di tutti i canoni di una società ingessata e fallocentrica.
Al fallo dominante la Raffa nazionale contrappose non l’opposto organo genitale, bensì un’altra parte del corpo, tanto femminile quanto universale, tanto banale quanto sensuale: l’ombelico. La prima comparsa dell’ormai notorio ombelico carrariano avvenne durante la fatidica “Canzonissima” del 1970: a partire dalla serata di debutto dello show del sabato sera, il 10 ottobre di quell’anno, Carrà si esibì nella sigla d’apertura, la celeberrima “Ma che musica maestro”, circondata da 45 giri extralarge. A colpire l’attenzione fu soprattutto il suo outfit: magrissima, ancora col caschetto castano, Carrà sfoggiava un top bianco con delle stringhe che le fasciavano le braccia e dei pantaloni bianchi aderenti, a lasciare scoperto un addome levigatissimo. I giornali in quei giorni non sottolinearono particolarmente il fatto, forse più che altro con intento censorio, ma il dado era tratto: con quella mise la soubrette aveva portato sulla tv nazionale una parte anatomica sempre considerata troppo intima per essere mostrata in pubblico. Lei non ci vedeva nulla di male: “Al mare, in vacanza, con un paio di short, io mi vesto più o meno così. Dov’era lo scandalo? Dove la provocazione?” ha spiegato a Vanity Fair.
Tra l’altro Carrà era particolarmente orgogliosa del suo ombelico, che definiva “alla bolognese”, eredità di mamma Iris, e che paragonava a un tortellino. Normalize normal belly buttons, si direbbe oggi in epoca di body positivity. Sebbene qualche anno prima fosse già stato proposto in tv dalle gemelle Kessler, pur con minor riscontro e polemica, l’ombelico prima di allora qualcosa di balneare, o al più un po’ da hippy: Carrà lo reinterpretò e lo trasformò in qualcosa di sfacciatamente mainstream, consegnandocelo come un’epitome di liberazione inaspettata.
Ma l’ulteriore tassello di questa Raffaella picconatrice del buon costume arrivò con il “Tuca Tuca”: siamo nella “Canzonissima” dell’anno successivo e nella sesta puntata il balletto più importante era quello in cui lei si cimenta con Enzo Paolo Turchi, oggi noto soprattutto come marito di Carmen Russo, ma allora ballerino e coreografo di primissimo piano. Stavolta fasciata da un “castissimo” tubino glitterato e dorato, Carrà presentò quello che in trasmissione veniva spacciato come “un nuovo ballo dalle Antille” oppure “il ballo del 1972 già famosissimo a New York, Londra e Parigi”. In realtà si trattava di un’invenzione del celebre Don Lurio, da un’idea di Gianni Boncompagni che scrisse il testo su musica di Franco Pisano. La coreografia, che consisteva nel punteggiare alcuni frammenti del corpo del partner con le mani, per poi lanciarsi in un affondo all’indietro, venne eseguita lateralmente, dice la vulgata dell’epoca, per rassicurare il pubblico a casa che i due ballerini non si toccassero effettivamente in modo improprio le parti intime. La sensualità c’era comunque tutta e i due inscenavano una specie di corteggiamento sublimato, e ritmato. Per la prima volta una donna esternava con convinzione non solo il suo diritto a dire “mi piaci mi piaci mi pia’”, ma soprattutto “ti voglio”. Era un’innovazione ai nostri occhi banale, e forse un po’ triviale, ma per l’epoca era una sfida a qualsiasi principio d’onore: una donna che prendesse l’iniziativa era da considerarsi quantomeno sconveniente, se non scabrosa. La dirigenza Rai insorse, le richieste di censura si moltiplicarono, ma anche questa volta Carrà e il suo team non si lasciarono intimorire: ci misero una pezza il 13 novembre successivo, quando invitato a replicare l’erotico balletto fu Alberto Sordi. Albertone, simbolo rassicurante di italianità, con la sua partecipazione benedì il “Tuca Tuca” e lo consegnò a un Paese intero, con Raffaella Carrà divenuta ormai gran sacerdotessa di un rituale che avrebbe cambiato per sempre la rappresentazione mediatica del desiderio femminile. Il suo impatto fu talmente pervasivo che se ne accorse decenni dopo anche una certa Madonna, che nel 2012 s’ispirò alla medesima coreografia per l’esibizione di “Erotica” nel suo Mdna Tour.
“Tuca Tuca” a parte, sono numerosi i testi delle hit in cui Carrà ha interpretato la versione più autentica e liberata di sé stessa. Tre anni dopo il pezzo “A far l’amore comincia tu”, quello che ha avuto una nuova vita grazie al remix di Bob Sinclar e la colonna sonora de La grande bellezza di Sorrentino, insisteva sul concetto di donna come promotrice dell’approccio erotico, colei che prende l’iniziativa e anzi vivifica un rapporto altrimenti sterile (Se lui ti porta su un letto vuoto / Il vuoto daglielo indietro a lui). “Fagli capire quello che vuoi” potrebbe essere stampato in qualsiasi manuale sex positive degli ultimi anni, così come un verso in particolare di “Rumore” (Ma ritornare ritornare perché / Quando ho deciso che facevo da me) è un manifesto di autodeterminazione femminile di rara concisione. Del 1978 è invece “Tanti auguri”, sigla del programma “Ma che sera” col suo stravagante video girato in mezzo ai monumenti in scala ridotta dell’Italia in miniatura: qui la Raffa esprimeva tutto il suo “cuore vagabondo”, ribadendo quanto fosse “bello far l’amore” soprattutto “con chi hai voglia tu”. Ma al di là della carica sessuale incontrollabile, la chiave di volta sta qui: E se ti lascia lo sai che si fa / Trovi un altro più bello che problemi non ha. Non solo una donna intraprendente e finalmente padrona del suo destino, ma soprattutto maschi intercambiabili, da sostituire in un upgrade continuo, soddisfatte o rimborsate, anzi, meglio: appagate. […]
Dietro e fuori dello studio di registrazione, sopra il palco o dietro le quinte, Raffaella Carrà si è fatta sempre incarnazione di questo nuovo modello di donna affrancata dallo sguardo e dalle imposizioni maschili. Attenzione, questo non vuol dire che lei sfuggisse del tutto a un modello sociale comunque sempre condizionato dagli uomini: certe scollature, certi spacchi, certe coreografie comunque ammiccanti, erano in ogni caso frutto di un contesto culturale in cui il male gaze era ed è ineludibile. Anche un certo autoritarismo che la conduttrice aveva con chi lavorava con lei e soprattutto con sé stessa, una specie di rigore militare, così come la sua stessa ammissione di aver avuto una vita sentimentale travagliata a causa dell’assenza del padre, non sono che piccoli segnali di un adeguamento, più o meno inconsapevole, a un modello maschile comunque dominante. Nonostante ciò, Carrà ruppe il soffitto di cristallo, in un modo in cui nessuno aveva osato fare prima.
Il suo essere fieramente e liberamente donna ha imposto un nuovo modo di porsi nel mondo dello spettacolo in Italia. Un modello che ancora oggi, nonostante le conduttrici siano numerose e di primissimo piano, non tutte possono (o vogliono) permettersi di incarnare.