Dopo il test amministrativo è ripreso il tormentone inerente alle alleanze del Pd e alla prospettiva di mettere mano a una nuova legge elettorale. Premesso il generale, fondato scetticismo circa la possibilità che si riesca a cambiare il Rosatellum (perché mai le destre favorite dovrebbero dare il via libera?), Catalano osserva che il tema delle alleanze dovrebbe essere posto a valle e in coerenza con quello del profilo identitario del Pd.
Dentro e fuori di esso, semplifico, si rinvengono tre scuole di pensiero: vi è chi tifa per la rinuncia a una politica delle alleanze nel quadro di una regola proporzionale; chi, come Letta, non recede dall’idea del campo largo, il più inclusivo possibile (con M5S, centro e sinistra); chi, prendendo atto dei veti incrociati, sostiene che si debba optare in un senso (i centristi) o nell’altro (il M5S). Aut aut. Magari facendo di conto del presunto valore aggiunto di questi o quelli.
Sorprende la miopia, la pochezza di tali approcci. Cui difetta la politica. Piuttosto si dovrebbe muovere da tre ordini di ragionamento. Il primo: anziché privilegiare “a pelle” questo o quell’alleato, ci si dovrebbe applicare alla qualità dell’offerta politica, alla luce di un’accurata lettura di ciò di cui hanno bisogno il nostro Paese e la nostra democrazia. Ideali, interessi, programmi. Il secondo: forse una qualche attenzione la si dovrebbe riservare anche alla domanda politica che, nonostante le innumerevoli sigle, ancora non trova risposta. Due soli esempi: lo sterminato bacino dell’astensionismo e quello un tempo rappresentato dalla sinistra.
Dopo l’89 vi fu un profluvio di convegni e di pubblicazioni raccolti sotto il titolo “What is left?”. Parafrasandolo oggi potremmo chiederci “Where is left?”. Se esista e dove si sia eventualmente cacciata la sinistra. Ho l’impressione che i due bacini, l’astensionismo e la domanda di sinistra, siano intrecciati. Infine – terzo ordine di ragionamento – il Pd si dovrebbe chiedere, ai fini di una coerente politica delle alleanze, quale sia il suo statuto ideale. Domanda cruciale eppure elusa.
Quando il Pd fu varato, nel solco dell’Ulivo e, a giudizio dei detrattori, semplice erede della sequela Pci-Pds-Ds, nessuno si sarebbe sognato di concepirlo, al contrario, come del tutto estraneo a una sensibilità di sinistra. Moderna, plurale, con cultura di governo quanto si vuole, ma non aliena dalla migliore tradizione della sinistra. Lo si può dire ancora oggi per il Pd? Un partito sempre più espressione dell’establishment che dà l’impressione di “annullarsi” nel governo al punto di trasmettere l’idea di puntare al “Draghi forever”.
Un tale profilo più che spingerlo a un rapporto privilegiato o addirittura esclusivo con i centristi alla Calenda e alla Renzi, lo condannerebbe alla subalternità politica a essi. Un Pd renziano senza Renzi; un Pd mollato da Calenda che a lui si consegna. Un Pd che si limita a qualche occasionale battaglia sui diritti civili – che di per sé sarebbero questione di civiltà apprezzata indifferentemente da destra a sinistra – ma del quale non si avverte una qualche “differenza” sul piano che più caratterizza la sinistra: le politiche sociali e del lavoro, la sfida ambientale, la politica estera.
Un profilo che altresì dubito possa risultare vincente anche ai fini del consenso, in un Paese e in una congiuntura segnati da un’acuta sofferenza sociale e da una inevasa domanda di cambiamento che gli opinionisti da salotto bollano sprezzantemente come populismo. Con il risultato di aprire un’autostrada alle destre capeggiate da una leader cui i cultori della liberal-democrazia, rassicurati dal suo improvvisato atlantismo, perdonano i “comiziacci da Kirill” (cfr. Giuliano Ferrara).
In breve, la priorità delle priorità, per il Pd, è decidere chi e cosa esso voglia essere. Sta bene il campo, grande o meno, ma decisivi sono identità e capacità del contadino.