Il primo compito di chi studia, insegna, fa ricerca è distinguere e connettere. È l’essenza stessa del pensiero critico. Della cultura: quella cosa che, diceva Claudio Abbado, “ci permette di giudicare chi ci governa”.
Ma oggi in Italia distinguere, connettere e giudicare è sospetto. Anzi, è una colpa. Il disciplinamento delle idee ha avuto un’accelerazione con la pandemia: siamo in guerra, ci si è detto. E dunque unità nazionale, congelamento della democrazia, generali come se piovesse. Il nemico era il dissenso. Poi subito la guerra: quella vera. E così è arrivata l’inquisizione: e chiunque, dal papa in giù, si permetta di indicare la complessità delle ragioni che hanno portato alla guerra, e la necessità di farla finire il prima possibile, è stato additato come un nemico della libertà e dell’Occidente, un traditore della patria, un amico di Putin.
Ma – ha scritto Tiziano Terzani – “dubitare è una funzione essenziale del pensiero, il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come voler togliere l’aria ai nostri polmoni. … Penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui, e mi si lasci porre delle oneste domande: in questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace”.
Io dubito.
Dubito che inviare le armi sia una buona idea: armando gli aggrediti e continuando a finanziare l’aggressore, siamo noi a fare la guerra, da tutte e due le parti.
Dubito che sia saggio far cessare antiche neutralità, e accerchiare ancora la Russia.
Dubito che la resistenza ucraina sia simile a quella italiana antifascista: e penso che l’uso politico del passato sia un tratto tipico dei regimi totalitari (come Putin dimostra: lasciamolo dunque a lui).
Dubito che i nostri governi, e quello italiano in particolare, difendano i valori occidentali: parliamo di quelli della Costituzione, o di quelli del mercato? Dell’interesse dei ricchi e potenti, o dei poveri e inermi?
Dubito che il nostro articolo 11 ci consenta di rimanere nella Nato, se non siamo in condizioni di “parità”, e se la Nato non serve a costruire pace e giustizia, ma invece a garantire il primato occidentale.
Dubito che il mondo avrà un futuro se lo pensiamo come un monopolio di noi occidentali.
Dubito che sia nell’interesse dell’Italia e dell’Europa che “l’Occidente – l’impero americano – combatta contro i russi fino all’ultimo ucraino”. E dubito anche che sia morale, che sia umano.
Dubito che proibire i seminari su Dostoevskij, pretendere atti di abiura dagli artisti russi, sospendere gli esami di certificazione del russo in università, firmare memorandum tra le università e la fondazione Med-Or di Leonardo presieduta da Marco Minniti voglia dire difendere la nostra civiltà.
Dubito che la guerra sia la soluzione. Temo che più armi voglia dire solo più morti: almeno 50.000 finora, dalle due parti.
Dubito che faccia parte dei valori occidentali festeggiare e ridere quando una nave russa viene colpita e affondata. Perché, sì, sono invasori in una guerra imperialista e nazionalista, ma su quella nave muoiono ragazzi senza colpe. E festeggiare la morte di qualcuno è esattamente il contrario di ciò che chiamiamo civiltà.
Dubito di dovermi sentire parte di qualche blocco, patria, nazione che non sia l’unica nazione umana, l’unica patria che è il mondo intero.
Dubito che tutti coloro che, anche in perfetta buona fede, mostrano il loro entusiasmo per le armi, la resistenza, la morte eroica lo farebbero ancora dopo un solo giorno in guerra. “Dulce bellum inexpertis”, diceva Erasmo da Rotterdam: la guerra è bella solo per chi non la conosce.
E infine dubito di tutto questo, ogni volta che sento sostenere il contrario con onestà e argomentazione: e vorrei vivere in un Paese in cui nessuno, per i suoi dubbi, venisse trattato come un nemico.