La trasformazione italica dell’invasione dell’Ucraina in guerra ideologica per sentito dire, risente di alcune specificità delle nostre aziende editoriali. Disponendo esse di budget modesti, spalmano oltremisura sull’intero palinsesto decine di ore settimanali di talk show, i quali (con o senza gettoni di presenza) rimangono la produzione più economica e semplice da realizzare. Ne consegue la ricerca parossistica di caratteristi non necessariamente informati purché dotati di repertorio funzionale a svolgere una certa parte in commedia. Basti pensare al cortocircuito mediatico di cui si è ritrovato oggetto il professor Orsini, che sono lieto abbia trovato ospitalità nel nostro giornale, benché io non condivida né le sue tesi né i suoi modi.
Se provate a farci caso, una buona metà dei commenti su cui formiamo il nostro punto di vista (dall’editoriale di prima pagina alla rubrica delle lettere) sono focalizzati sul talk show della sera prima o comunque sulle prese di posizione di altri giornali. Resta in secondo piano la storia secolare dei contrasti fra ruteni, tedeschi, russi, ebrei, polacchi, turchi che diedero luogo a numerose operazioni di ingegneria etnica in un’Europa orientale dai confini rimasti sempre variabili. Peccato, scopriremmo che quella storia ci riguarda da vicino perché la destra che va per la maggiore oggi in Europa si nutre del medesimo principio nazionalistico con cui Putin si autoproclama in diritto di difendere le genti russe anche al di fuori dei confini nazionali, cioè violando le frontiere dell’Ucraina che nel 1994 il suo predecessore Eltsin aveva sottoscritto essere inviolabili.
Così, sbrigativamente, la propaganda s’impossessa delle nostre coscienze. I sommovimenti del 2013-’14 noti come Euromajdan ridotti a colpo di Stato paranazista; l’occupazione militare della Crimea e subito dopo la secessione del Donbass liquidate come un dettaglio secondario; ignorata la pur significativa, per certi versi sorprendente volontà maggioritaria dei russofoni ucraini di restare indipendenti da Mosca. Quasi che, volendo noi giustamente criticare le politiche di riarmo fomentate dalla Nato, di conseguenza fossimo anche costretti a denigrare la resistenza ucraina, negandone la legittimità e il consenso popolare.
Ho il timore che, nel mentre rivendichiamo il nostro dissenso nei confronti della Nato, e altrettanto giustamente denunciamo la retorica atlantista imperante nei media, finiamo invece per sorvolare sulla natura pericolosa dell’imperialismo russo. Che è sì straccione, per volumi di Pil, ma pur sempre dotato di arsenali militari e materie prime sufficienti a mettere a repentaglio le democrazie europee.
A muovere Putin non è solo un istinto autodifensivo provocato dall’allargamento della Nato. “Senza l’Ucraina la Russia cessa di essere un impero ma con l’Ucraina sottomessa diventa automaticamente un impero”: lo disse a suo tempo Brzezinski ma lo pensa di sicuro anche Putin.
Questa mentalità imperiale, questa vocazione a considerarsi predestinati al ruolo di superpotenza, è contagiosa. Oggi accomuna la Russia alla Turchia, non a caso il neo-zar e il neo-sultano s’intendono egregiamente. Ricordate? Nel secolo scorso un improbabile Duce convinse perfino gli italiani di essere ridiventati un Impero. Stiamoci attenti, ripeto. L’invasione dell’Ucraina non è solo un episodio di assestamento di equilibri territoriali che noi possiamo guardare da lontano, restandone fuori, al massimo proponendoci mediatori per un cessate il fuoco. Ragioniamo con la nostra testa, sapendo che gli Usa non possono essere più il nostro faro. Ma, per favore, troviamo un modo europeo di stare dalla parte degli ucraini perché altrimenti un Putin tira l’altro, e da Erdogan a Orbàn alla Meloni il passo è più breve di quanto sembri.