Quando il 24 febbraio Putin ha invaso l’Ucraina la maggior parte degli osservatori pensava che la guerra sarebbe durata giorni, al massimo settimane. Una rapida vittoria russa era data per scontata. Gli Stati Uniti ne erano talmente convinti che solo 48 ore dopo l’invasione avevano offerto a Zelensky la possibilità di fuggire in esilio in America. Allora chi voleva inviare armi agli ucraini affermava che bisognava farlo perché era immorale restare immobili davanti a un’aggressione e perché Putin dopo l’Ucraina si sarebbe rivolto alla Moldavia o agli Stati Baltici, cioè al resto d’Europa. I favorevoli all’invio spiegavano anche che era necessario alimentare una resistenza partigiana in grado di trasformare l’Ucraina in una sorta di Afghanistan. In uno Stato sì conquistato, ma impossibile da controllare. In questo modo, si diceva, Putin sarebbe stato prima o poi costretto a sedersi a un tavolo delle trattative.
Le cose sono andate in tutt’altro modo. In questi mesi abbiamo assistito non a una resistenza di popolo, ma a un tradizionale scontro tra eserciti. Mosca verosimilmente solo nelle prossime settimane conquisterà non l’intera Ucraina, ma il Donbass. I militari ucraini, a cui Putin poco dopo l’invasione si era rivolto pubblicamente chiedendo di scalzare Zelensky, non lo hanno tradito e hanno combattuto come sa fare solo chi difende la propria patria e la propria libertà. L’addestramento e le armi fornite dagli Usa per anni si sono dimostrati efficaci per rallentare l’avanzata nemica.
In questo quadro imprevisto Zelensky è apparso ondivago. All’inizio sembrava dare per scontata la necessità di cedere dei territori pur di arrivare alla pace. Poi ha preso a parlare di controffensiva e della volontà di riconquistare anche le repubbliche del Donbass e forse la Crimea. Oggi gli ucraini annunciano un contrattacco in agosto.
Anche Putin dice di non volere la pace. In questo momento pure un semplice cessate il fuoco non gli conviene perché ritiene che verrebbe utilizzato dagli aggrediti per armarsi e riorganizzarsi.
Anche per questo sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna parlano di una guerra tradizionale destinata a durare molto a lungo. Boris Johnson al G7 mette in guardia il presidente francese Macron da “ogni tentativo” di una soluzione per la pace negoziata “in questo momento”, dice che è “possibile invertire il corso della guerra”, mentre il presidente del consiglio europeo Charles Michel afferma: “L’Ucraina ha bisogno di più aiuti militari, più aiuti finanziari e lo faremo”.
Il conflitto in apparenza senza fine avrà evidenti ricadute sui cittadini europei che nei prossimi mesi dovranno fronteggiare nuovi enormi aumenti delle bollette, l’inflazione in ulteriore salita, la povertà e la disoccupazione in aumento.
È realistico ritenere che le difficili condizioni economiche condizioneranno pesantemente, a partire dal 2023, gli appuntamenti elettorali delle democrazie occidentali. I votanti sceglieranno o l’astensione o le forze politiche che per varie ragioni (a volte nobili, a volte ignobili) si sono opposte al sostegno con armi al conflitto.
Questo scenario è chiaro anche in molte cancellerie europee. Tanto che persino Mario Draghi, in visita a Washington, ha pubblicamente parlato della possibilità che alla lunga gli interessi del vecchio continente divergano da quelli americani e ha chiesto di operare perché ciò non accada.
Ma c’è di più e di peggio. Tre mesi fa, mentre negli Usa e in Inghilterra si parlava della possibilità di ricacciare i russi fuori dall’intera Ucraina e di creare le condizioni per un cambio di regime, il capo della Cia ha detto di “prendere molto sul serio” la possibilità che un Putin disperato potesse utilizzare armi atomiche tattiche o a basso potenziale.
Si tratta, ovviamente, solo di ipotesi. Nessuno può dire che siano corrette, ma nemmeno nessuno può purtroppo affermare che siano sbagliate.
Di sicuro c’è solo il rischio nucleare e l’escalation in atto.
A Mosca i media di regime evocano spesso la guerra totale. In Italia, sui nostri media, opinionisti che non hanno mai visto in vita loro né una guerra da vicino né un morto ammazzato, se la prendono col Papa e col presidente francese Macron reo di ripetere, alla luce del pericolo atomico, che comunque vada “non bisogna umiliare Putin”.
È il populismo delle élite che spinge molti in tv e sui giornali a rinunciare all’analisi dei fatti, dei pericoli, delle prospettive e delle conseguenze, per scegliere invece il tifo e gli insulti da stadio.
Così le comprensibili paure di tanti rispetto al rischio di un conflitto allargato o di una lunghissima recessione economica, vengono volutamente confuse con il filo putinismo di pochi.
Un bagno di realismo dovrebbe invece spingere tutti a distinguere le ragioni del cuore da quelle della mente. Col cuore è pressoché impossibile pensare di lasciare da sola l’Ucraina aggredita. Con la mente invece bisogna analizzare i dati di fatto. Partendo dal campo di battaglia che ha fin qui dimostrato una cosa: l’esercito russo dal punto di vista tradizionale non è in grado di tener fronte da solo agli eserciti Nato (lo ha affermato persino Putin) e quindi il rischio paventato di una Russia che dopo l’Ucraina allarga le sue mire su altri Stati è pressoché nullo.
Può davvero essere che gli ucraini nei primi mesi abbiano combattuto, come viene spesso ripetuto, per la libertà dell’intera Europa. Ma oggi, stando a quello che ci racconta la cronaca di guerra, anche grazie ai nostri aiuti non è più così. Perché Putin dopo soli 5 mesi di combattimenti non ha abbastanza uomini e armi per pensare di prendere in tempi brevi più di un pezzo di Ucraina.
Così diventa chiaro quanto sia sbagliata, ipocrita e pericolosa la frase (in apparenza bella e condivisibile) che tutti i governi ripetono: “Spetta solo agli ucraini dire quando e a che condizioni fare la pace”.
È vero, sono loro che muoiono. Non noi. Ma siamo noi che li riforniamo di armi, sebbene l’Ucraina non sia un paese alleato, facendo rischiare ai nostri cittadini la guerra mondiale o peggio nucleare. Siamo noi che, in reazione all’aggressione, abbiamo deciso un embargo destinato ad aumentare le nostre povertà ed a alimentare le nostre tensioni sociali. Siamo noi che veniamo considerati, dall’invasore russo, Paesi ostili. Siamo noi che oggi promettiamo a Kiev la ricostruzione e l’ingresso nell’Unione europea.
Anche noi dunque dobbiamo avere voce in capitolo negli eventuali accordi di pace. Non per ordinare qualcosa all’Ucraina, ma per decidere con l’Ucraina il da farsi.
Anche perché tutti sanno che per provare a fermare in tempi brevi un conflitto vi è un’unica strada. Quella che Henry Kissinger ha riassunto in una frase: “Dolorose concessioni territoriali”.
Certo, inutile nasconderlo. Se Macron, Sholtz, Draghi e il leader spagnolo Sanchez decidessero di convince gli ucraini a tentare di percorrere questa via, garantendo in cambio l’accesso alla Ue e la ricostruzione del Paese, si creerebbero enormi frizioni con l’amministrazione Biden.
Il presidente Usa, almeno fino alle elezioni di novembre, non può fare passi indietro. Anche se la guerra nella lontana Ucraina non interessa agli elettori americani, ogni suo cedimento nei confronti del “macellaio” Putin verrebbe utilizzato dai repubblicani per sostenere l’inadeguatezza dell’amministrazione democratica. Inoltre quella che si sta combattendo in Ucraina non è ormai più una piccola guerra locale: le circostanze, le scelte e le affermazioni di tutti i protagonisti l’hanno trasformata in un conflitto per procura in cui la posta è il nuovo ordine mondiale. Un nuovo ordine rivendicato esplicitamente non solo dalla Russia, ma pure dalla Cina.
Se gli Usa cedono saranno più deboli agli occhi di tutta quella parte del mondo che non li sopporta (quasi 4 miliardi di persone). Pensare che mollino è dunque velleitario.
Per questo ci attendono altra guerra e altri insulti da chi finge di avere la verità in tasca. La piccola Italia, almeno fino alle prossime elezioni (ammesso che ci arriviamo vivi), farà quello che ha sempre fatto: la spettatrice-esecutrice di decisioni prese da altri.
La voce e il pensiero dei cittadini per i populisti delle élite non contano. Alcuni di loro arrivano a sostenere che chiedere agli elettori di pronunciarsi sarebbe come chiedere un referendum sulle tasse o sui trattati internazionali, in entrambe i casi vietati dalla nostra Costituzione. In realtà visto che l’Ucraina non è nostra alleata e non sono scattate le norme previste in caso di guerra dichiarata, i cittadini avrebbero tutto il diritto di far sapere come la pensano. Di scegliere cosa secondo loro è giusto e cosa è sbagliato.
Perché è questa la principale differenza tra le democrazie e le autocrazie, a partire da quelle di stampo putiniano. Qui la gente ha il diritto, o meglio dovrebbe avere il diritto, di dire quello che pensa senza venire controllata, perseguita o semplicemente insultata dall’establishment. I media anche stranieri e persino di regimi a noi ostili devono, o meglio dovrebbero, non essere censurati dal potere politico, ma come tutti gli altri sanzionati (anche con la chiusura) solo da enti terzi super partes rispetto a chi è protempore al potere. Ogni opinione, persino quelle ripugnanti di chi sta con gli aggressori, hanno in democrazia il diritto di esistere venendo criticate, ma non annullate.
Altrimenti tanto vale arrendersi e dire che Putin ha davvero già vinto. Non un pezzo di terra, ma peggio ancora il cuore della nostra civiltà.