Dalle immagini nascono idee, e dalle immagini ci facciamo delle idee. Che lo si voglia chiamare “operazione speciale”, “guerra”, “invasione”, ciò che accade da 4 mesi ai confini di quella che sentiamo come la nostra Europa, ci riempie gli occhi di immagini. Ognuno di noi le confronta a un passato più o meno recente, a orrori più o meno assoluti, a ingiustizie incolmabili o soltanto punibili. La guerra siamo ognuno di noi per come la vediamo e la viviamo. Ecco, viverla: sicuramente la potenza delle immagini ci da l’impressione che la morte degli altri sia quasi prossima, ma in realtà quasi mai la rischiamo davvero. Ciò che rischiamo sono gli effetti collaterali: la scarsità, le difficoltà, i rincari, e la messa in discussione delle nostre certezze, e di alcune delle nostre idee ben radicate da decenni di pace e prosperità.
“L’uomo che lotta per la sua libertà è sempre sublime” è il titolo che qualche giorno fa il Fatto ha pubblicato per recensire “Juneteenth”, il libro che celebra la liberazione dei neri americani dalla schiavitù, divenuto infine festa nazionale. Ma sublime a noi appare tutt’al più il passato, i fatti che lo scorrere del tempo trasformano in storia: la cronaca non ha quasi mai nulla di sublime ed è sottoposta al nostro giudizio più immediato e viscerale. Siamo intrappolati tra gli accadimenti e le emozioni, tra le immagini e il tentativo di capire.
Sul fronte di guerra è tutto più facile, i sensi sono più vigili, il tempo è scandito da attimi decisivi, e gli errori si possono pagare cari. È il vantaggio di una visione ravvicinata perciò parziale dei fatti: domina la verità del momento. I boati, le distruzioni, il fumo e le fiamme, la paura e il sollievo. E poi ci sono i morti. E i morti meritano il rispetto di chi è lì a guardarli. Quando li vedi i morti non sono buoni o cattivi, sono solo tuoi simili. E il racconto della loro fine è un tassello della verità, anche se nelle guerre la prima vittima è proprio la verità.
Raccontare la guerra vale sempre lo sforzo e la pena, non dimenticando che il quadro generale è ben più ampio del tuo punto di osservazione.
Ora che le immagini vengono a noi da ogni parte e non c’è quasi più bisogno di andarle a cercare, l’esercizio di noi giornalisti è ancor più quello di capire, di “sistemare” quelle immagini in un racconto che abbia un senso più alto e faccia comprendere i motivi delle tragedie individuali che ogni vittima porta con sé.
La guerra porta con sé un carico di emozioni e giudizi che ognuno di noi deve saper esprimere al di là della distanza con la quale la si osserva. Non si tratta di schierarsi ma di trovare il punto di osservazione più adatto e, se possibile, più neutro, direi “migliore”. La guerra è raccontata da millenni in ogni modo possibile: turpitudini, aberrazioni e gesti sublimi; chiunque abbia letto libri ha incontrato la guerra, i suoi eroi e i suoi vili. Le guerre sono tutte uguali e sempre sono il momento più orrendo dell’animo umano, rivelano ciò che sono gli uomini. Sono un momento di verità, almeno sul terreno, nell’istante in cui la vita è a rischio. Ed è ciò che non dobbiamo smettere di voler capire e raccontare.