Il primo editoriale del Fatto, il 23 settembre 2009, firmato dal direttore Antonio Padellaro, s’intitolava “La Costituzione come linea politica”. E allora partiamo dalla Costituzione. Precisamente dall’infame, oggi misconosciuto, articolo 11 nel quale quelle mammolette dei costituenti – che una guerra l’avevano combattuta di persona e non per procura – hanno infilato una serie di immonde prescrizioni pacifiste. Dice così: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Il verbo “ripudia” fu preferito ad altri, come rifiuta, proprio perché esprime una contrarietà assoluta, netta, inderogabile. In Assemblea Costituente il consenso sull’art. 11 fu praticamente unanime: forze diverse si riconoscevano in un valore comune alle loro culture e nel rifiuto del recente passato.
Dunque la guerra difensiva è l’unica consentita, le controversie internazionali vanno risolte per altra via; non esistono ragioni diverse dalla necessità di rispondere a un attacco armato che possano legittimare il ricorso alla guerra. Non sono ipotizzabili ‘guerre giuste’ in grado di sospendere il divieto costituzionali. Eppure l’Italia ha partecipato a operazioni militari e inviato truppe fuori dai confini con un crescendo impressionante. Interventi militari en travesti: ‘operazioni di polizia’, ‘missioni umanitarie’, ‘missioni di pace’. Far parte della Nato nonostante la sua mutazione ‘aggressiva’, ci impegna “incondizionatamente”? Un trattato ci vincola senza limiti? Negli anni, e oggi più che mai, i giuristi ‘giustificazionisti’ hanno tentato di salvare la partecipazione a interventi armati come adempimento di obblighi derivanti dalla adesione a ‘organizzazioni internazionali’ con le ‘limitazioni’ conseguenti, usando la seconda parte dell’art. 11 contro la prima. Ma non ci sono due parti separate: l’art. 11 è una disposizione unitaria che va letta, appunto, nella sua unità. C’è una sentenza della Corte costituzionale (300/1984) che chiarisce che le “finalità” cui sono subordinate le limitazioni di sovranità sono quelle stabilite nell’art. 11, non le finalità proprie di un trattato. La professoressa Lorenza Carlassare, commentando quella sentenza della Consulta, ha scritto: “Il discorso è importante anche perché il ripudio della guerra non vieta solo la partecipazione a conflitti armati, ma pure l’aiuto ai Paesi in guerra: illegittimo è il commercio di armi con tali Paesi e il fornir loro le basi per agevolarne le operazioni”.
Tra le mille sciocchezze in malafede che abbiamo sentito citare per legittimare l’invio di armi in Ucraina – invio che avviene con una delega del Parlamento al governo, nell’ignoranza dell’opinione pubblica perché la lista degli armamenti secretata – è stato citato anche l’articolo 52 della Carta, che parla del sacro dovere di difendere la patria. È ovvio che si riferisce all’Italia. Ma anche tutti gli altri articoli della Carta che toccano l’argomento (il 78, che stabilisce le forme per la dichiarazione dello stato di guerra, l’87 che dice che il presidente della Repubblica dichiara la guerra, il 60 che statuisce la possibilità di prorogare le Camere in caso di guerra) parlano di guerra difensiva in àmbito nazionale. Per concludere vorrei citare questa massima che dà ben conto dell’arietta che tira: “La guerra sta all’uomo come la maternità alla donna, la pace è deprimente e negatrice delle virtù dell’uomo che solo nello sforzo cruento si rivelano”. Benito Mussolini.
Quando c’era lui, bè era un po’ come adesso…