Da mesi sentiamo parlare di guerra di idee, mentre in Ucraina bombe e cingolati uccidono città e fabbriche, soldati e civili. Non potrebbe essere altrimenti: Kiev ha mobilitato tutti i cittadini maschi fra 16 e 60 anni, vietando loro di lasciare il Paese, e i civili uccisi per strada lo sono anche a causa di questa scelta. Ma proviamo a guardare da vicino e vedremo che “guerra di idee” è un termine fuorviante, che sommerge la sostanza: sommerge quel che accade sul terreno bellico e la storia lunga del conflitto; l’impossibile vittoria ucraina e la doppia hybris degli occidentali e dei russi nei decenni malati del dopoguerra fredda. Occulta infine la faglia, tragica, apertasi nella geografia che per secoli ha unito Europa e Russia.
I responsabili di tanto dissesto sono ovviamente i politici, non solo i dirigenti russi ma anche gli occidentali che per trent’anni hanno chiamato ordine internazionale quello che è stato un caos permanente, costellato da una sfilza di guerre il cui scopo era l’affermarsi dell’ordine unipolare statunitense.
Ma il dissesto è non meno tragicamente dovuto al modo in cui la guerra è narrata, in paesi che sfoggiano la libertà d’opinione e formalmente non sono in guerra. Una simile sudditanza al complesso militare-industriale si è vista di rado nei nostri media, se escludiamo la guerra di Corea. La copertura del conflitto dipende in gran parte dalle informazioni ucraine, che per forza esaltano le vittorie e nascondono le sconfitte. La colpa non è di Kiev, ma dei giornalisti o reporter che mai ammettono la natura unilaterale delle informazioni che diffondono. Ancora nella guerra in Iraq sapevamo distinguere tra le narrazioni dei media indipendenti e le notizie dei reporter “incorporati” (embedded) in un esercito. Ora non lo sappiamo più. È quello che hanno denunciato in aprile alcuni inviati di guerra (tra cui Alberto Negri, Giulia Sgrena, Vanna Vannuccini) in una lettera aperta contro gli “interessi inconfessabili” del conflitto.
Le cose sono degenerate perché si è imposta, appunto, la guerra di idee: quelle buone che trasudano innocenza e quelle cattive che spargono sale e morte. Dicono che Stati Uniti e Europei mandano armi per difendere la libertà contro la Russia liberticida. E la stragrande maggioranza dei media s’adagia su tale favola di Cappuccetto Rosso e il Lupo, come la chiama il Papa. Lo show necrofilo deve continuare!
In Russia la libertà di stampa è mortificata, lo sappiamo. Ma dopo la decisione inglese di estradare Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks che ci ha aperto gli occhi su stragi e torture commesse da Washington e alleati in Afghanistan e Iraq, e osservando il silenzio sulle violenze dell’apartheid israeliano, non mi fido più della correttezza dei media mainstream. Non mi fido di presidenti come Obama e Biden, ansiosi di punire Assange con l’ergastolo. Non mi fido dei talk show, che sbeffeggiano le voci critiche e fingono un replay della guerra contro Hitler. Temo la censura che infliggiamo ai siti di Russia Today o Sputnik, preziosi per capire come si ragiona nel Cremlino. Dove sono, oggi, i cremlinologi di un tempo?
Lo dico a malincuore, ma la censura russa che colpisce a volte mortalmente i media mi sembra una condizione quasi migliore dell’autocensura e del conformismo militante praticati in Italia. Quasi migliore delle liste di proscrizione che bollano come putiniani i pareri disallineati (dire “non allineati” è un omaggio che non ci concedono).
La guerra di idee e valori rimanda alle guerre di religione, impedisce di capire, e uccide non solo combattenti e civili. Sta uccidendo il mestiere di giornalisti, blogger, whistleblower, blogger, influencer e di tutti coloro che si occupano di guerra.