La guerra in Ucraina ha portato alla ribalta mondiale il fenomeno Zelensky non tanto per aver vinto le elezioni presidenziali con una soap opera, e neppure per le doti di statista. Appena eletto provò a mantenere le promesse fatte in campagna: terminare il conflitto in Donbass, negoziare con Mosca e favorire la neutralità del Paese, ma l’ombra della forca proiettata su di lui e la sua famiglia dagli estremisti Dmitri Yarosh, leader di Pravy Sector e Serhiy Kvit del Movimento di resistenza alla capitolazione (CRM) gli fecero invertire la rotta.
Prima dell’invasione russa, a dispetto delle informazioni statunitensi, invitò gli ucraini a non cedere agli allarmismi, ma poche sibilanti parole “amiche” lo indussero ad interpretare il ruolo di Presidente di guerra. Un ruolo non facile ma che soltanto lui poteva svolgere: sia perché attore e sceneggiatore (anche nel senso napoletano), sia perché poteva allontanare i più che fondati sospetti di neo nazismo, razzismo e russofobia che pesavano sul suo governo. Lui, infatti, era stato democraticamente eletto, era di origine ebraica (quindi anti-nazista per definizione) e di lingua russa. E divenne perciò il protagonista della grande e fortunata operazione di marketing politico e influenza strategica tesa a mobilitare l’Occidente nella guerra contro la Russia. Da allora, il mondo occidentale guarda l’Ucraina con gli occhiali di Zelensky ed è vulnerabile perché conosce soltanto il suo copione. Ovviamente, gli anglo-americani che hanno fornito gli occhiali e dettato le battute erano ben attrezzati per conoscere, oltre alle potenzialità, i limiti e le vulnerabilità delle sceneggiate e i pericoli dei suoi eccessi. Primo tra tutti l’usura del personaggio che è stata aumentata dalla sovraesposizione mediatica indotta anche dall’atteggiamento acritico dei media.
Così, i registi hanno dovuto adattare il personaggio a vari cambiamenti di scena: da moderato ad aggressivo, da petulante ad arrogante, da militarista a pacifista, da vittima a eroe e martire. I “produttori” si sono invece trovati impreparati di fronte al successo del protagonista: non perché sia bravo o intelligente ma perché si è rivelato uno Zero, in senso matematico. Lo zero non è un numero dotato di valore proprio, è un operatore di posizione. Ogni zero messo dopo un numero lo aumenta di dieci volte, messo prima lo riduce di altrettanto; unito agli altri operatori di moltiplicazione e divisione lo annulla, posto alla potenza riduce qualsiasi numero ad uno. Soltanto con l’addizione o la sottrazione è ininfluente. Nel sistema binario i numeri non esistono ed entrambi i segni 0 e 1 sono operatori di posizione. Uno zero può facilmente amplificare o vanificare ogni operazione e perciò il controllo degli “zeri” è importante. Lo sanno bene gli americani che più volte hanno dovuto azzerare le proprie creature e narrazioni perché “sfuggite di mano”, come disse la segretaria di Stato Hillary Clinton a proposito dell’Isis, o come capitò al predecessore Colin Powell a proposito della narrazione sulle armi nucleari irachene, a G.W. Bush sull’11 settembre, a Trump sull’accordo con i talebani e a Biden sulla dissoluzione dell’esercito afghano dopo uno sforzo ventennale e trilioni di dollari per ricostituirlo nell’ambito di un regime “amico”. Quando le cose organizzate e condotte con tanta solerzia e dovizia di risorse “sfuggono di mano” o vanno fuori controllo i casi sono due: o sono talmente scivolose da non consentirne la gestione e allora sono state mal valutate, o le mani sono troppo deboli e allora la propria forza è stata mal valutata o mal impiegata.