L’Ucraina è una Repubblica semi-presidenziale grande due volte l’Italia con 42 milioni di abitanti. A Sud si affaccia sul Mar Nero e il Mar d’Azov, a Est confina con la Russia, a Nord con la Bielorussia, a Ovest con Polonia, Slovacchia e Ungheria e a Sud Ovest con Romania e Moldavia. Malgrado l’enorme produzione di grano, è il secondo Stato più povero d’Europa dopo la Moldavia, ma fra i più armati del mondo: prima del 24 febbraio scorso era la 22° potenza militare, ora entrerà presto fra le prime dieci. Nella sua storia ha quasi sempre fatto parte della Russia. Ma nel 1917, quando scoppia la Rivoluzione d’Ottobre, è divisa fra l’Impero zarista e la Polonia. La neonata Unione Sovietica la riunifica e ne fa una sua Repubblica socialista. Negli anni 30 la furia collettivista di Stalin porta allo sterminio di 4-6 milioni di kulaki, proprietari terrieri, soprattutto al Centro e all’Ovest del Paese, scatenando l’odio antirusso delle popolazioni. Nel 1941, quando le truppe di Hitler marciano su Stalingrado nell’Operazione Barbarossa, vengono accolte come liberatrici e trovano in Ucraina migliaia di collaborazionisti rastrellare, depredare e deportare gli ebrei nei lager. L’ideologo nazista Stephan Bandera diventa l’eroe nazionale: a fine guerra, gli americani salveranno migliaia di nazisti in funzione anti-sovietica e Bandera potrà fuggire a Monaco sotto falso nome, finché non sarà scovato e ucciso dal Kgb.
1989. Il 9 novembre crolla il muro di Berlino e l’Urss inizia a dissolversi.
1990. Il presidente dell’Urss Michail Gorbačëv abolisce il partito unico e indice libere elezioni nelle 15 repubbliche sovietiche. Quasi dappertutto il Pcus perde e vincono i partiti riformatori e i nazionalisti: Lituania, Moldavia, Estonia, Lettonia, Armenia, Georgia. Ma non in Ucraina, dove vincono i comunisti. Lituania, Ucraina, Estonia, Lettonia e Georgia proclamano l’indipendenza. La Germania Est si unisce all’Ovest ed entra nella Nato. La Russia non si oppone, ma a patto che la Germania Est resti senza basi Nato. Usa e Nato promettono verbalmente a Gorbačëv che la Nato non si allargherà a Est: lo dichiarano il ministro tedesco Dietrich Gensher, il segretario di Stato americano James Baker, il presidente Usa George Bush, il segretario generale Nato Manfred Warner.
1991. Boris Eltsin viene eletto presidente della Russia. Il Patto di Varsavia si scioglie, ma la Nato no: resta in piedi in funzione anti-russa. Ma i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania si riuniscono a Bonn e confermano, stavolta per iscritto, che la Nato non si espanderà a Est. Il tedesco Jürgen Chrobog mette a verbale: “Non estenderemo la Nato oltre l’Elba. Non possiamo quindi dare alla Polonia e agli altri l’ingresso nella Nato”. E l’americano Raymond Seitz: “Abbiamo chiarito all’Unione Sovietica… che non trarremo alcun vantaggio dal ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa dell’Est”. Referendum in Ucraina: il 71,4% vota per restare nell’Urss. Bush parla al Parlamento ucraino: “Gli americani non sosterranno coloro che cercano l’indipendenza per sostituire una tirannia lontana con un dispotismo locale. Non aiuteranno coloro che promuovono un nazionalismo suicida basato sull’odio etnico”. Ma poi cambia idea: “L’Ucraina ha diritto all’indipendenza”. E in un nuovo referendum il 90% degli ucraini vota per l’indipendenza dall’Urss, che si scioglie a fine anno. Però Russia, Bielorussia e Ucraina si uniscono nella Csi: Comunità di Stati indipendenti.
1993. Ucraina e Russia iniziano a spartirsi la flotta del Mar Nero e le basi militari. Le loro economie passano dal collettivismo comunista alle privatizzazioni selvagge, in mano a un pugno di oligarchi che rilevano i colossi pubblici e diventano miliardari, alimentando miseria, corruzione e malcontento.
1994. Memorandum di Budapest: l’Ucraina trasferisce il suo arsenale nucleare alla Russia in cambio dell’impegno di Mosca a rispettare l’indipendenza e la sovranità ucraine. Il presidente comunista Leonid Kravčuk è sconfitto alle elezioni da Leonid Kučma, che si tiene in equilibrio tra Russia e Occidente, grazie agli ottimi rapporti fra Eltsin e il nuovo presidente americano Bill Clinton. La Russia diventa partner della Nato, che collabora anche con l’Ucraina.
1997. Joe Biden, senatore democratico del Delaware, futuro vicepresidente e presidente Usa, dichiara al Consiglio Atlantico: “Annettere alla Nato gli Stati baltici sarebbe l’unica mossa che rischierebbe di provocare una risposta vigorosa e ostile da parte della Russia e spostare gli equilibri fra Russia e Usa”.
1999. La Nato inizia a violare i patti invitando e inglobando Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, anche se la Russia in ginocchio non rappresenta alcuna minaccia. Mosca protesta, ma non ha la forza di reagire. È la prima applicazione delle teorie dell’ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, e dei “neocon” della destra americana sull’esigenza di circondare, assediare, provocare e dissanguare la Russia costringendola a un riarmo sempre più costoso, a una reazione armata e a una definitiva sconfitta militare. La seconda mossa della Nato è l’attacco al principale alleato dei russi in Europa: la Serbia di Slobodan Milosevic, bombardata per 11 settimane senza alcun mandato dell’Onu. Bilancio: tra i 1000 e i 5mila morti, quasi tutti civili, e un fiume di profughi. La Nato non la chiama guerra, ma operazione di “ingerenza umanitaria”. Eltsin protesta: “È il primo segnale di cosa potrebbe accadere se la Nato arrivasse ai confini della Russia. Le fiamme della guerra potrebbero bruciare per tutta l’Europa”. Ma non ha la forza per reagire: è vecchio e malato e le sue folli liberalizzazioni suggerite dal Fmi hanno messo il Paese in ginocchio. Però Eltsin scatena la seconda guerra in Cecenia contro i ribelli separatisti e islamisti. Poi nomina a premier il direttore del servizio segreto Fsb, Vladimir Putin, che a fine anno lo sostituirà come presidente. E in 10 anni riconquisterà la Cecenia con massacri, devastazioni indicibili e decine di migliaia di morti su entrambi i fronti. Intanto avvierà il riscatto economico e strategico della Russia, ma a prezzo di un regime sempre più autoritario e repressivo.
2000. In Ucraina va al governo il filo-occidentale Viktor Juščenko.
2001. L’11 settembre Al Qaeda abbatte le Torri Gemelle a New York e devasta il Pentagono. La Russia partecipa con l’Occidente alla guerra al terrorismo islamista e concede alla Nato lo spazio aereo per la guerra all’Afghanistan.
2002. Caduto il premier filoccidentale Viktor Juščenko, va al governo in Ucraina il filorusso Viktor Janukovyč.
2003. Altro schiaffo alla Russia: George W. Bush e i suoi alleati (ma non la Francia) attaccano l’Iraq di un altro alleato di Mosca, Saddam Hussein, col pretesto di suoi inesistenti armi di distruzione di massa e legami con Osama bin Laden. Anche stavolta, senza l’avallo preventivo dell’Onu. E anche stavolta senza chiamarla guerra: è “lotta al terrorismo” ed “esportazione della democrazia”. Bilancio: fra Iraq e Afghanistan, almeno 1 milione di morti.
2004. La Nato ingloba anche Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. Il premier filorusso Janukovyč viene eletto presidente, battendo di misura il filoccidentale Juščenko. Ma la Corte Suprema annulla le elezioni per le proteste popolari contro sospetti brogli. È la “rivoluzione arancione”, sostenuta dagli Usa. Juščenko, avvelenato con diossina, resta sfigurato, ma sopravvive e nelle elezioni ripetute diventa presidente.
2006. Nuovo ribaltone: il filorusso Janukovyč, alle elezioni politiche, batte il partito del presidente e torna premier. A Mosca viene uccisa la giornalista dissidente Anna Politkovskaja. Non è e non sarà l’unica.
2007. Gli Usa lanciano il progetto di scudo spaziale con basi antimissile e radar puntati sulla Russia da Polonia e Repubblica ceca. Francia e Germania sono contrarie all’ennesima provocazione contro Mosca. Putin minaccia di puntare missili nucleari sulla Polonia e gli Usa fanno marcia indietro. A Monaco, in un famoso discorso, Putin tuona contro l’Occidente che ha violato i patti: “L’espansione della Nato non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza o la garanzia di sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia. E noi abbiamo diritto di chiedere: contro chi è intesa questa espansione? E le rassicurazioni dei nostri partner occidentali dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Nessuno le ricorda… Gradirei citare il discorso del segretario generale Nato, il signor Wörner, a Bruxelles, il 17 maggio 1990: ‘Il fatto che noi siamo pronti a non schierare un esercito della Nato fuori dal territorio tedesco offre all’Unione Sovietica una stabile garanzia di sicurezza’. Dove sono queste garanzie?”. Il presidente ucraino Juščenko scioglie le Camere contro il premier Janukovyč che ha limitato i suoi poteri, manda l’Ucraina al voto anticipato e batte il partito filorusso alleandosi con l’altra leader di estrema destra, Julija Tymošenko. Che diventa premier e nel 2010 promuoverà il nazista Stepan Bandera eroe nazionale.
2008. Spinta da George W. Bush, la Nato si riunisce a Bucarest e annuncia che presto “Ucraina e Georgia diventeranno membri”. Putin commenta: “È una minaccia diretta alla Russia”. La Georgia attacca la repubblica separatista filorussa dell’Ossezia del Sud. La Russia interviene militarmente e, già che c’è, invade anche l’altra repubblica separatista dell’Abcasia. In dieci giorni le truppe georgiane sono ricacciate oltre confine.
2009. La Nato ingloba anche Albania e Croazia.
2010. L’ex premier filorusso Janukovyč si prende la rivincita contro la Tymošenko: vince le elezioni presidenziali, diventa capo dello Stato e apre un dialogo con l’Unione europea per farvi entrare l’Ucraina. La Tymošenko sarà poi condannata a 7 anni per malversazione di fondi pubblici e abuso d’ufficio.
2011. La Nato, aggirando ancora una volta l’Onu, attacca la Libia del colonnello Muammar Gheddafi, altro alleato di Putin, messo in fuga dai bombardamenti e brutalmente assassinato.
2013. Janukovyč, per le clausole troppo dure imposte dal Fmi in cambio di prestiti – riforme antisociali, aumento delle bollette ecc –, non firma l’accordo con l’Ue. Per premio, Putin riduce il prezzo del gas all’Ucraina e le presta 15 miliardi di dollari. Anche gli Usa tentano di comprarsela, fomentando rivolte di piazza. Il presidente Barack Obama invia a Kiev Victoria Nuland, assistente del Segretario di Stato John Kerry per gli affari europei e asiatici e servitrice di tutti i padroni: prima di Bush, ora di Obama, in futuro di Biden. Moglie del superfalco neocon Robert Kagan, gran tifosa delle guerre in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, a dicembre la Nuland dichiara: “Gli Usa hanno investito 5 miliardi di dollari per dare all’Ucraina il futuro che merita”. Subito dopo scoppia a Kiev la “rivolta di Euromaidan” contro Janukovyč e a favore dell’Ue.
2014. Due mesi di violente e sanguinose proteste nazionaliste in piazza Maidan, con l’ausilio di milizie neonaziste, riducono all’impotenza la polizia e costringono il presidente appena eletto Janukovyč a dimettersi e a rifugiarsi in Russia. Poco dopo su Youtube viene pubblicata, forse dai servizi russi, una telefonata intercettata fra la Nuland e Geoffrey Pyatt, ambasciatore Usa in Ucraina: i due già sanno che Janukovyč cadrà e decidono quali dei suoi oppositori dovranno fare il premier e i ministri del futuro governo. La Nuland non gradisce come futuro premier ucraino il capo dell’opposizione, l’ex pugile Vitali Klitschko (“Non penso sia una buona idea”): meglio l’uomo delle banche Arseniy Yatsenyuk, che infatti andrà al governo di lì a un mese. Pyatt vorrebbe consultare l’Ue, ma la Nuland urla: “Fuck the Eu!” (fottiamo la Ue, o l’Ue si fotta!). La Merkel e il presidente del Consiglio Ue van Rompuy protestano per quelle “parole assolutamente inaccettabili”. Ma non perché gli Usa decidono il governo e il futuro dell’Ucraina come se fosse una loro colonia.
A Est, nel Donbass, si rivoltano i separatisti russofoni, che reclamano l’indipendenza dall’Ucraina sostenuti da Mosca. La Crimea si proclama indipendente e, in un referendum col 96% di Sì, si riunisce alla Russia. L’Occidente non riconosce l’annessione e vara sanzioni contro Mosca, che i governi italiani di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, ma anche quelli tedesco e francese, violeranno continuando a fornire armi ai russi.
A Kiev le nuove elezioni presidenziali le vince il filo-occidentale Petro Porošenko, oligarca ucraino, re del cioccolato, ex banchiere centrale, proprietario della tv 5Kanal, che ha promesso l’apartheid dei russofoni: “Noi avremo lavoro e loro no, i nostri figli andranno a scuola e i loro figli staranno in cantina”. La sua neo-alleata Timoshenko, appena scarcerata, ha chiesto di “uccidere questi maledetti moscoviti e colpirli con le atomiche”. Nel nuovo governo filo-Usa ci sono almeno quattro ministri neofascisti. Primo atto: abolire il russo come seconda lingua ufficiale, status ora riservato solo all’ucraino, in un Paese dove il 35% degli abitanti sono russofoni.
Il 2 maggio miliziani neonazisti e attivisti ultranazionalisti marciano su Odessa scatenando violenti scontri con i russofoni e incendiano la Casa del sindacato, dove si sono rifugiati decine di filorussi: ne muoiono almeno 42, di cui 32 bruciati vivi e 10 saltando dalle finestre. Ma i filorussi parlano di oltre 150 morti e centinaia di feriti e ustionati. Nel referendum per l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, stravincono i Sì, ma solo la Russia li riconosce: Kiev manda le truppe e così fa Mosca. A fine anno gli accordi di Minsk, patrocinati dall’Osce fra Ucraina, Russia, Donetsk e Lugansk prevedono cessate il fuoco, scambi di prigionieri e impegno ucraino a dare maggiore autonomia alle due regioni. Ma il presidente Porošenko li viola subito con una pesante operazione “antiterrorismo”, mentre la Russia sostiene i separatisti. Decisivo il ruolo, accanto alle truppe di Kiev, degli ultranazionalisti di Pravi Sektor (Settore Destro) e dei neonazisti del Battaglione Azov che, nel culto di Bandera, esibiscono vessilli e tatuaggi con svastiche più o meno stilizzate. Quando strappa ai filorussi Mariupol, l’Azov viene integrato nella Guardia Nazionale Ucraina da Porošenko, che nella cerimonia di premiazione definisce quei nazisti “i nostri migliori combattenti volontari”. Il governo promuove a tenente colonnello Andrij Biletsky, appena eletto deputato: è il cofondatore dell’Assemblea Social-nazionale, i cui obiettivi sono “la protezione della razza bianca” mediante una “nazionecrazia antidemocratica e anticapitalista” e l’eradicazione del “capitale speculativo sionista internazionale”. Per Biletsky la missione dell’Ucraina è “guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale contro i popoli inferiori guidati dai semiti”.
L’Ucraina avvia le prime esercitazioni militari con la Nato. Inizia la lunga guerra civile in Donbass: un conflitto per procura fra truppe ucraine finanziate e armate da Usa e Gran Bretagna, e separatisti sostenuti da Mosca. Bilancio: in 8 anni, almeno 14mila morti, di cui 4800 civili, e 200 mila profughi in Russia. Fra le vittime ci sono almeno 40 giornalisti, di cui uno italiano: Andrea Rocchelli, schedato dai servizi di Kiev e poi ucciso in Donbass da un colpo di mortaio sparato contro i civili dalle truppe ucraine. Il governo di Kiev non ha mai collaborato con la giustizia italiana, anzi ha depistato le indagini attribuendo l’assassinio a terroristi filorussi.
LA GUERRA ALLE IDEE – Leggi tutti gli interventi
2015. Accordi di Minsk-2 tra Russia e Ucraina, stavolta garantiti da Francia e Germania: statuto speciale per il Donbass e zona cuscinetto fra Ucraina e Russia. Ma la guerra civile continua. La Fondazione russa per lo Studio della Democrazia invia all’Ocse un rapporto sulle violenze dei servizi e dei paramilitari neo-nazisti ucraini in Donbass, non solo contro i militanti separatisti ma anche contro i civili russofoni catturati: elettrocuzioni, torture con bastoni di ferro e coltelli, waterboarding (simulazioni di annegamento impiegate dagli Usa in Afghanistan, Iraq e a Guantanamo), soffocamento con sacchi di plastica, unghie strappate, ossa frantumate, strangolamenti tramite garrota (detta anche “garrota banderista” in onore di Bandera), prigionieri spinti a forza su campi minati o stritolati da carri armati, celle gelide e senza cibo, somministrazione di psicotropi letali, prigionieri marchiati con svastiche e scritte “SEPR” (separatista) con lame roventi sul petto o sulle natiche.
L’Onu, l’Osce e Amnesty International condanneranno più volte gli “uomini neri” del Battaglione Azov, definiti dall’Osce “responsabili dell’uccisione di massa di prigionieri, occultamento di cadaveri nelle fosse comuni e uso sistematico di tecniche di tortura fisica e psicologica”. Migliaia di casi mai perseguiti dal governo e dalla giustizia ucraini.
Intanto in Siria, dal 2011, gli Usa e i loro alleati Arabia saudita, Emirati, Kuwait, Qatar e Turchia soffiano sul fuoco della rivolta contro il principale alleato dei russi in Medio Oriente: la Siria del dittatore Bashar al-Assad, contestato da ribelli filo-occidentali armati e finanziati da Washington. È l’ennesima guerra civile per procura, che mira a sostituire il tiranno filorusso e filoiraniano con un fantoccio filo-occidentale. Putin interviene militarmente per difendere le due basi militari russe di Latakia e Tartus, con grande brutalità, bombardando sia lo Stato Islamico dell’Isis sia i ribelli anti-Assad, radendo al suolo Aleppo e altre loro roccaforti e usando anche armi chimiche. Bilancio della guerra in Siria: 350 mila morti in 10 anni.
2016. Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano, avverte sul Washington Post: “Per l’Occidente la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica, ma un alibi per l’assenza di qualsiasi politica… Gli Usa devono evitare di trattare la Russia come un corpo anomalo a cui vengono insegnate con pazienza le regole di condotta stabilite da Washington… Trascinare l’Ucraina in un confronto fra Est e Ovest impedirà per decenni di portare la Russia in un sistema internazionale cooperativo… L’Ucraina non dovrebbe aderire alla Nato… e mantenere una posizione simile alla Finlandia: una nazione che non lascia dubbi sulla sua salda indipendenza, coopera con l’Occidente… ma evita accuratamente l’ostilità istituzionale con la Russia….. La Russia dovrebbe riconoscere la sovranità dell’Ucraina sulla Crimea. E l’Ucraina dovrebbe lasciare più autonomia alla Crimea… Se non si raggiunge una soluzione basata su questi presupposti, la deriva verso lo scontro aperto accelererà. Un momento che arriverà abbastanza presto”.
2017. Anche il Montenegro entra nella Nato. In Ucraina il leader del partito neonazista Svoboda, Andrij Parubij, grande fan di Hitler, indagato per la strage di Odessa, presenta alla Rada – il Parlamento ucraino di cui è presidente – una legge per dare priorità all’ingresso dell’Ucraina nella Nato.
2019. Il presidente Porošenko fa emendare la Costituzione per impegnare l’Ucraina a entrare nella Nato e nell’Ue. Poi perde le elezioni presidenziali. Il nuovo presidente è Volodymyr Zelensky, un comico russofono che ha vinto il Ballando con le stelle ucraino ed è diventato celebre per la serie Servant of the People sul canale tv 1+1 di un oligarca ucraino, di origine ebraica come lui: Ihor Kolomojs’kyj, grande azionista della banca Privat Group e presidente della squadra di calcio del Dnipro, re dei metalli, terzo uomo più ricco d’Ucraina, finanziatore di una trentina di formazioni paramilitari di estrema destra (dal Battaglione Azov al Battaglione Dnipro), di cui alcune accusate da Amnesty International di crimini di guerra, sparizioni e torture in Donbass. L’oligarca amico di Zelensky risiede in Israele da quando il suo nemico Poroshenko gli ha fatto sequestrare la banca con l’accusa di averle rubato 5 miliardi. Anche Zelensky è sospettato di traffici finanziari e fiscali tutt’altro che chiari, di certo incompatibili con le sue promesse di lotta alla corruzione: l’inchiesta sui Pandora Papers ha rivelato che Zelensky e i suoi soci della casa di produzione di commedie Kvartal95 possedevano una rete di società offshore e conti correnti in paradisi fiscali (Isole Vergini, Cipro e Belize) usata anche dal suo socio e attuale consigliere Serhiy Shefir per acquistare costosi immobili a Londra e altrove. Zelensky possiede anche una villa a Forte dei Marmi, acquistata nel 2017 per 3,8 milioni e intestata a una società italiana controllata da una cipriota: 6 camere da letto, 15 stanze e parco con piscina. Nel 2019, alla vigilia delle elezioni, Zelensky s’è scordato di dichiarare la villa al Forte e una delle quattro società offshore, poi ha ceduto le sue quote a Shefir, ma con una clausola segreta che permetterebbe al presidente e alla moglie di continuare a ricevere fondi dalle società.
Appena eletto, Zelensky promette al Parlamento la fine della guerra in Donbass. Ma non darà mai ordine alle sue forze armate di cessare il fuoco. In compenso decreta l’offensiva militare per riconquistare la Crimea. Poi vola dal segretario generale Nato, Jens Stoltenberg, e ottiene per l’Ucraina il rango di “partner” e la promessa di una rapida ammissione. Segue un’esercitazione militare congiunta Kiev-Nato. A novembre i quattro Paesi di Minsk – Russia, Ucraina, Francia e Germania – firmano un nuovo accordo per uno scambio di prigionieri e una riforma costituzionale che dia ampia autonomia ai russofoni. Ma anche quello resterà lettera morta. L’attacco Usa agli alleati di Putin arriva al Venezuela, dove il presidente rieletto Nicolàs Maduro subisce un golpe orchestrato da Trump per tentare di rimpiazzarlo col presidente dell’Assemblea nazionale Juàn Guaidò, subito riconosciuto da tutta la Ue, fuorché dal governo italiano di Giuseppe Conte.
2020. La Nato ingloba anche la Macedonia del Nord. Donald Trump fa assassinare Qasem Soleimani, primo generale dell’Iran, altro Paese amico della Russia dissanguato da anni di sanzioni occidentali. Zelensky approva il Piano strategico di sicurezza nazionale: partnership con la Nato in vista della futura adesione.
2021. Zelensky confisca le tv di opposizione, legate al partito Opposition Platform-For Life dell’oligarca filorusso Viktor Medvedčuk, che sarà arrestato durante la guerra insieme alla messa fuorilegge di tutti e 11 i partiti d’opposizione. La Ue protesta. Zelensky chiede alla Nato di accelerare l’ingresso dell’Ucraina per inviare un “segnale reale” a Mosca e perché “la Nato è l’unica soluzione per porre fine al conflitto”. Putin minaccia conseguenze: “Russi e ucraini sono un unico popolo, un unico insieme…. La Russia mai è stata e mai sarà anti-Ucraina. Cosa sarà l’Ucraina dipende dalle decisioni dei suoi cittadini”. Mosca ammassa 100 mila uomini al confine ucraino. Il 14 giugno il vertice Nato di Bruxelles ribadisce il sostegno alle “aspirazioni dell’Ucraina a entrare nell’Alleanza Atlantica”. Tra giugno e settembre la Nato conduce tre imponenti esercitazioni militari in Ucraina. Mosca risponde con esercitazioni congiunte con l’alleata Bielorussia. Il 10 novembre Usa e Ucraina aggiornano un patto bilaterale siglato nel 2008, la “Carta sul partenariato strategico”, che impegna gli Usa a “sostenere” l’Ucraina “a massimizzare il suo status di Nato Enhanced Opportunities Partner per promuovere l’interoperabilità” e a riprendersi la Crimea. La Carta contrasta con gli accordi di Minsk sulla larga autonomia da concedere al Donbass e alla Crimea e rende ancor più inevitabile la guerra per procura fra Usa e Russia sulla pelle degli ucraini. Il 1° dicembre Putin chiede garanzie sul fatto che l’Ucraina non entrerà nella Nato, perché ciò comporterebbe “avere i missili Usa nel cortile di casa nostra”. Washington risponde picche: “Porte aperte all’Ucraina nella Nato”.
2022. Il 19 gennaio il presidente americano Joe Biden annuncia aiuti militari a Kiev per 200 milioni di dollari e per un mese annuncia ogni giorno, quasi che se lo augurasse, l’invasione russa dell’Ucraina. Il 7-8 febbraio il presidente francese Emmanuel Macron strappa a Kiev e Mosca l’impegno a rispettare gli accordi di Minsk: Zelensky lo conferma in una conferenza stampa. Ma l’indomani cambia idea e annuncia che non rispetterà Minsk. Il 10 febbraio Russia e Bielorussia avviano manovre militari congiunte. Il 19 febbraio, secondo il Wall Street Journal, il cancelliere tedesco Olaf Scholz chiama Zelensky per chiedergli di scongiurare la guerra dichiarando la neutralità dell’Ucraina e la rinuncia alla Nato in cambio di un ampio accordo di sicurezza per l’Ucraina e per tutta l’area firmato da Putin e Biden; ma Zelensky rifiuta, dicendo che di Putin non ci si può fidare. Il 21 febbraio Putin accoglie la richiesta della Duma e riconosce le Repubbliche autonome di Donetsk e Lugansk. Zelensky fa battute sull’invasione, a cui non crede, ma le sue forze armate, schierate per un terzo davanti alla Crimea, intensificano i bombardamenti sul Donbass. Il 22 febbraio Donetsk e Lugansk chiedono aiuto a Mosca contro l’aggressione delle forze armate ucraine. Il 24 febbraio l’armata russa invade l’Ucraina.