La guerra è un buon esempio del modo di fare informazione oggi: non scarsezza di titoli, ma, anzi, eccesso. Non molta censura, ma, anzi, flusso continuo – per lo più via social – di immagini. Serve fermarsi un secondo, giusto il tempo di leggere un post, di visualizzare un video e via. Le immagini, in questo flusso, sono private del loro contesto, del prima e delle possibile conseguenze nel dopo: sono giustapposte l’una all’altra e scorrono rapidamente, scrollando la bacheca del nostro profilo Facebook, Telegram, Instagram. Sembrano più reali del reale. Eppure sono schegge, schegge di emozione.
Se la quantità fosse qualità, noi dovremmo sapere tutto di questa guerra: perché tutto o quasi ci è stato mostrato, fin nei minimi dettagli. Ma la quantità non è qualità e questo lo sappiamo, lo sentiamo quando il moltiplicarsi delle dirette, dei video, dei post, genera in noi un’ansia e un’incapacità interpretativa. La visibilità di molti eventi è appannata. E questo, nonostante la guerra in diretta social e la copertura totale, nonostante la proliferazione di informazioni che si è trasformata in una valanga, nonostante tra noi e la guerra sembri esserci solo il sottile vetro di uno schermo.
Perché? È il “paradosso della visibilità totale”, così lo ha chiamato Antonio Scurati: a venir meno, con la guerra in tempo reale e con la lente di ingrandimento prima della tv e poi dei social, è proprio, paradossalmente, la visione, la sua comprensione. La guerra finisce col sembrare un fatto stilizzato, a uso e consumo delle nostre bacheche social. E la complessità degli eventi sfugge: siamo come anestetizzati.
“Quando sei sul campo di battaglia – raccontava Ennio Remondino – sei dentro la guerra e usi inevitabilmente lo zoom, quindi hai una visione ristretta. Il problema è che ci vogliono dei giornalisti che il grandangolo – diceva lui – lo abbiano nel cervello”. Tanto più con l’enorme dilatazione delle informazioni. Tanto più con la tendenza che ci ha lasciato la pandemia di dividere il mondo in “progressisti”, i garanti della democrazia e della salute e del Bene dell’umanità, versus “populisti”, dai negazionisti del virus ai No-vax, dai putiniani ai filorussi.
Andrebbe chiesto al giornalismo, allora, di scoprire il filo che unisce i fatti, anche quando porta là dove non si vuole vedere. Andrebbe chiesto di comprendere, non di romanzare. Andrebbe chiesto di confrontarsi con altre letture degli stessi eventi, di aprirsi, di contaminarsi con più voci. E, a tutti noi, andrebbe chiesto di tornare a pensare, ad adoperarci cioè, come diceva Brecht, per correggere tutto ciò che si sente e si legge, specie in tempi, come questi della guerra, in cui si esige l’inganno e si incoraggia l’errore.
Chiudo, a proposito di guerra alle idee, citando alcuni passi che Stella Morris, la compagna di Julian Assange, ha scritto qualche settimana fa per noi giornalisti occidentali.
“In questi drammatici giorni, riempiti di immagini di distruzione, di morte e di disperazione in Ucraina, vi vediamo intenti a denunciare eccidi e crimini di guerra. Svelarli e castigarli è proprio ciò a cui Julian Assange ha dedicato la sua vita. Con una differenza. Voi svelate e castigate i crimini di guerra della Russia, Paese che il governo statunitense ha qualificato come “nemico”. Il vostro è un lavoro giornalistico “al servizio della verità”, come amate proclamare, di una verità però comoda. Assange ha svelato e castigato i crimini di guerra della Nato in Afghanistan e in Iraq, quelli di cui il governo statunitense ha detto che non bisognava parlare e sui quali la Corte Penale Internazionale non deve indagare. Il lavoro giornalistico di Julian, dunque, è stato anch’esso “al servizio della verità” – ma di una verità scomoda. Talmente scomoda che il Dipartimento della Giustizia statunitense considera la diffusione di quelle verità meritevole di subire fino a 175 anni di carcere. (…) Non abbiamo visto la solerzia e l’indignazione che oggi mostrate nei confronti della Russia, quando a commettere le barbarie eravamo noi: i buoni, i democratici, i progressisti. Non abbiamo visto né dirette né maratone per gli orrori che noi e i nostri alleati abbiamo commesso in passato in Afghanistan, in Iraq, in Libia e oggi in Siria, in Palestina, nello Yemen e nel Sahel. C’è stata una persona che, quasi in solitaria, ha denunciato quegli orrori. Questa persona ha addirittura costruito un sito ingegnoso, Wikileaks, per poter raccogliere anonimamente le prove dei crimini commessi da noi “buoni”. Ed è solo per questo che quella persona è perseguitata dagli Stati Uniti, sin dal 2010. (…) E voi? Voi, da quale parte state? (…) Un vostro collega sarà sepolto vivo per aver fatto il suo lavoro di giornalista investigativo: non vi turba questo pensiero? (…) Se Julian Assange verrà estradato o se dovesse morire prima in carcere, sarà la morte anche dell’informazione libera, la morte del nostro #DirittoDiSapere cosa fanno realmente coloro che ci governano. (…) Se Julian non sarà liberato, neanche voi sarete più liberi”.