I ghiacciai si muovono e i seracchi crollano tanto d’inverno quanto d’estate. Ma il tragico distacco occorso presso la Punta Rocca della Marmolada, attorno a quota 3.200 metri, può essere stato causato dalle alte temperature di questi giorni. Dalle prime immagini il settore di ghiaccio crollato sembra aver esposto un’ampia zona di roccia del substrato sottostante. Di norma i seracchi si staccano collassando per il movimento su se stessi indotto dalla pendenza, ma il ghiaccio basale rimane incollato alla roccia per via delle temperature che dovrebbero essere sotto lo zero. In questo modo i volumi coinvolti dal crollo sono piuttosto modesti, salvo che nel caso di ghiacciai sospesi dello spessore di parecchie decine di metri, come accade sulle Grandes Jorasses al Monte Bianco, zona costantemente sotto osservazione da parte delle autorità valdostane.
Ma sulla Marmolada non eravamo in presenza di una vasta seraccata sospesa, bensì di un bacino di alimentazione glaciale di versante, percorso solamente da alcuni crepacci. Ecco dunque che il caldo, con zero termico che da una settimana è oltre i 4.000 metri con punte di 4.700 m a mezzogiorno di sabato 2 luglio, e più di una decina di gradi a 3.000 metri giorno e notte, può essere stato il fattore scatenante per l’accumulo di acqua di fusione penetrata nei crepacci. Il ghiaccio è già esposto al sole da circa un mese per via di un inverno poverissimo di neve e dei calori precoci di maggio e di giugno: entrambi i mesi sono stati in seconda posizione tra i più caldi di 220 anni, secondo le analisi del CNR-ISAC di Bologna.
Questa condizione ha generato un intenso ruscellamento superficiale con formazione di sinuosi canali detti “bédières” che quando trovano un crepaccio convogliano l’acqua fino al fondo roccioso, dove accumulandosi in sacche genera sottopressioni in grado di far letteralmente esplodere il ghiaccio che la contiene, lubrificandone anche lo scorrimento basale sulla roccia.
Una dinamica simile si era verificata oltre trent’anni fa sul Ghiacciaio superiore di Coolidge annidato sulla parete nord del Monviso. La sera di giovedì 6 luglio 1989 gran parte del piccolo ghiacciaio sospeso per un volume di 200.000 metri cubi si scollava dal circo roccioso che lo ospitava precipitando a valle. L’impetuosa valanga raggiunse il sottostante Lago Chiaretto, luogo di grande frequentazione turistica, lungo il sentiero dal Pian del Re verso il Rifugio Quintino Sella.
Allora non ci furono vittime soltanto grazie all’ora tarda, mentre sulla Marmolada il crollo avvenuto in pieno giorno di una domenica ha colpito in uno dei momenti con la massima presenza di alpinisti. Il crollo del ghiacciaio di Coolidge rappresentò per le Alpi italiane il primo segnale d’allarme di uno squilibrio indotto dal riscaldamento globale. Ricordo che accompagnai sul posto il collega Martin Funk del laboratorio di glaciologia del Politecnico di Zurigo: dal sopralluogo emerse che probabilmente era stato un temporale con pioggia a quote dove di norma dovrebbe nevicare anche d’estate a causare l’infiltrazione di acque nella crepaccia terminale del ghiacciaio, destabilizzandolo. Da allora, con l’incalzare dell’aumento termico, abbiamo assistito a grandiosi fenomeni di trasformazione del patrimonio glaciale, con la rapida riduzione delle superfici e la comparsa di enormi laghi a rischio di collasso, come quello del Rocciamelone nel 2001 e il lago Effimero sul ghiacciaio del Belvedere sopra Macugnaga nel 2002, oggetto di un’imponente operazione di svuotamento da parte della Protezione civile.
Le vittime della Marmolada si potevano evitare? A mio parere no. Prevedere con precisione luogo e modalità di un simile evento non era possibile. Certamente lo stato critico di tutti i ghiacciai per la carenza di neve e il caldo anomalo costituivano elementi di ulteriore prudenza per gli alpinisti, ma si sarebbero dovuti chiudere i ghiacciai di tutte le Alpi, dalla Francia all’Austria, a scopo preventivo, un provvedimento irrealistico. Resta il fatto che il caldo inedito aumenta i rischi dell’alta montagna.