“Giuseppe, non uscire dal governo. Se esci, è la tua leadership nel Movimento che va in crisi. A quel punto, come leader barricadero funzionerebbe meglio Alessandro Di Battista”. Negli ultimi giorni queste parole a Giuseppe Conte gliele ha ribadite più di un big del Pd, nel tentativo di convincerlo a non togliere l’appoggio a Mario Draghi. Il ragionamento al Nazareno lo fanno da giorni. E riecheggia nei corridoi di Palazzo Chigi, mentre si assiste al rimescolamento delle forze politiche, con le componenti radicali indebolite. “La posizione di Conte è lose-lose – commentava un dirigente di Articolo 1 – se resta nel governo è all’angolo, perché l’ala governista è rappresentata da Luigi Di Maio. Se esce, però, è finito del tutto”. A Conte sono state fatte balenare svariate offerte per il suo futuro politico: c’è persino chi immagina per lui un ruolo di primo piano in Europa, se continua a sostenere l’esecutivo.
D’altra parte, Enrico Letta è forse quello che ha più da perdere dall’uscita di Conte. Il Campo Largo andrebbe definitivamente in crisi, con possibilità per lui di tornare a Palazzo Chigi sempre più ridotte. E non tanto per una sorta di aut aut del segretario del Pd, quanto per il veto di chi l’alleanza strutturale con M5S la vorrebbe finita da quel dì. Da Stefano Bonaccini ad Andrea Marcucci, passando per Lorenzo Guerini. Ma è lo scenario immediato quello che preoccupa di più il segretario. Dal Quirinale continuano ad arrivare segnali contrari al voto. Le variabili da valutare – se Conte esce – sono tante, ma un Draghi bis sembra la più probabile, soprattutto se i numeri ci sono anche senza M5S. La possibilità che la Lega esca a ruota appare remota: i governisti sono pronti ad arginare Matteo Salvini e a giocarsi la carta di primo partito della maggioranza. A Letta a quel punto resterebbe il classico ruolo ingrato da segretario del Pd: continuare a stare nel governo per “senso di responsabilità”. Un ruolo che – seppur prodigo di benefici per i maggiorenti del partito – ai leader è sempre costato parecchio. Pier Luigi Bersani, con l’appoggio a Mario Monti, si giocò la vittoria alle elezioni. Nicola Zingaretti, con il via al Conte 2, sconfessò la sua stessa linea politica: da lì la slavina che arriva fino alle sue dimissioni.
Il Nazareno ieri mattina si è affrettato a smentire che il “vedremo” pronunciato da Letta a una domanda sul Draghi bis significasse un cambio di linea, rispetto al ripetuto no a un altro governo e al richiamo alle elezioni. Difficile che il segretario abbia la forza per fermare un’operazione del genere. Gli scenari, intanto, girano vorticosi. Compreso quello che vuole Daniele Franco in sostituzione di Draghi per una legge di bilancio light e poi il voto.
Uno scenario che appare contraddetto dal fatto che le elezioni sarebbero fissate a maggio per gestire la prossima ondata di nomine. In questo clima, si è ricominciato a parlare di legge elettorale. La proposta che gira sui tavoli delle varie segreterie è quella firmata dal dem Dario Parrini e dal leghista Roberto Calderoli. Una sorta di proporzionale con premio di maggioranza che scatta al 40% (consegnando alla coalizione vincente il 55% dei seggi) e che non prevede collegi uninominali. Nelle intenzioni si tratta di un sistema che evita feroci liti per le spartizioni dei collegi, e che permette di immaginare una coalizione più liquida, che può sciogliersi dopo il voto. E che prefigura una vittoria meno netta, in modo da neutralizzare Giorgia Meloni. In molti vedono dietro la spinta a una legge come questa pure il placet di Sergio Mattarella. D’altra parte il mago delle riforme elettorali nel Pd è Stefano Ceccanti, vicino al presidente. I più attribuiscono a Mattarella la ferma volontà di non dare un domani l’incarico a Fratelli d’Italia. C’è un altro dettaglio che unifica i movimenti di questa fase: dietro alla scelta di Di Maio molti vedono la regia di Ugo Zampetti, segretario generale del Colle. Se il piano inclinato resta questo, le probabilità di un governo modello Draghi senza Draghi aumentano vertiginosamente. Motivo per cui Letta è sì a favore della modifica del sistema di voto, ma mantiene dei dubbi su quale.
Nel Pd si assiste a un riassestamento in vista delle liste elettorali. Il più duro con Conte è stato Dario Franceschini. Uno che da sempre capisce dove va il vento. Il sospetto nel Pd è che il ministro della Cultura giochi di sponda con il Colle. Se prima “l’amalgama” Pd-M5S era considerato vitale per la tenuta di questo sistema, ora lo è creare le condizioni per una maggioranza alla Draghi.