Stento a credere che il Pd intenda assumere la lealtà al (defunto) governo Draghi quale requisito discriminante per formare una coalizione di centrosinistra: “Questo strappo rende impossibile ogni alleanza con i 5 Stelle”, ha sentenziato Franceschini. Con ciò condannandosi a sconfitta certa, anche qualora il Pd risultasse il partito più votato alle prossime elezioni. Ma soprattutto rinunciando a una riflessione approfondita sulle cause del fallimento di un esperimento tecnocratico nel quale, non dimentichiamolo, lo stesso Pd venne trascinato controvoglia dopo la caduta del Conte bis. Anziché sfogarsi gridando al tradimento dei soliti populisti, non sarebbe meglio chiedersi perché, nonostante le apparenze, si sia rivelato così vulnerabile un governo che riuniva il fior fiore della classe dirigente italiana, selezionato da un ex presidente della Bce, con all’interno top manager di multinazionali e grand commis dello Stato?
In due giorni Repubblica è passata dal titolone roboante “L’Italia non vuole la crisi” (19 luglio) a uno sconsolato “L’Italia tradita” (21 luglio). Al malinconico “Addio al governo Draghi” del Corriere della Sera faceva da contrappasso l’indignato “Vergogna” de La Stampa, superato solo da “L’ora più buia” de Il Giorno. Va bene la sorpresa, va bene la delusione, ma l’indomani mi sarei aspettato almeno uno sforzo di riesame autocritico sul perché l’uomo forte della borghesia italiana – posso usare questa espressione antica? – al dunque si fosse rivelato così debole. E sul perché neanche quei titoloni di rimpianto per Draghi abbiano suscitato una benché minima mobilitazione popolare a suo sostegno. Se pure fosse ingenuo aspettarselo da giornali espressione organica della classe dirigente, possibile che non si avverta un minimo sforzo di analisi da parte di un partito, il Pd, che nel 2018 toccò il suo minimo storico con 6 milioni di voti e il prossimo 25 settembre può aspirare a superare tale quota, ma non certo a raddoppiarla?
Solo pochi giorni fa l’Ipsos di Nando Pagnoncelli aveva divulgato delle rilevazioni su cui pure il Pd dovrebbe interrogarsi: è il partito più votato da imprenditori, quadri e liberi professionisti (24,2%) nonché dai redditi medio-alti (31,4%). Ma precipita a quarto partito fra gli operai e i lavoratori esecutivi (12,5%), preceduto da Lega, Fratelli d’Italia e M5S. A sua volta l’Istat ha reso noto che l’inflazione sta aumentando di un milione le persone che vivono in povertà assoluta, le quali nel 2021 erano già 5,6 milioni. Stiamo oltrepassando il 10% della popolazione italiana in miseria, cui vanno ad aggiungersi i 7 milioni di cittadini che vivono in povertà relativa. Davvero il Pd pensa di poter consolidare il proprio radicamento sociale presentandosi come il partito orfano di Draghi e coalizzandosi al centro con dei mini-partiti che si oppongono a ogni seria politica redistributiva?
L’altro argomento brutalmente semplificatorio su cui, a quanto pare, puntano i fautori della rottura con i Cinquestelle è il contesto internazionale. Sento dire: da una parte noi che sosteniamo la resistenza ucraina, atlantisti ed europeisti; dall’altra i nemici dell’Occidente che fanno il gioco di Putin. Dubito che questa volgare denigrazione, una caricatura della realtà, possa fare presa su un’opinione pubblica certamente spaventata e lacerata, ma in ben altri termini. Tra i più bellicosi paladini di un atlantismo militarista, come è noto, troviamo il partito di Giorgia Meloni. Mentre è nel mondo cattolico che segue il magistero di papa Francesco, nonché nella sinistra di base, che permane una forte opposizione alla politica di riarmo. Sostenere gli ucraini aggrediti da Putin scongiurando un’escalation militare, e rivedere una strategia delle sanzioni rivelatasi inefficace, dovrebbe essere la naturale vocazione di chi persegue nuovi equilibri pacifici. I putiniani stanno da tutt’altra parte.
Ho scritto, e confermo, che vedrei con favore un impegno politico diretto di Draghi per fronteggiare l’offensiva della destra. Anche se lo considero del tutto improbabile. Ma spaccare il centrosinistra in nome della continuità col governo Draghi nelle politiche sociali e in politica estera è tutt’altra cosa: significherebbe abbandonare le classi subalterne al loro destino e incoraggiarle all’astensione.
Dopo i miseri 95 voti raccolti da Draghi al Senato non possiamo cavarcela solo denunciando la scarsa qualità dei parlamentari. Andrebbe riconosciuto che ancora una volta la borghesia italiana si è rivelata incapace di egemonia, inadeguata a farsi classe dirigente. E c’è da scommettere che, dopo avere versato lacrime di coccodrillo per la brutta fine del governo su cui aveva scommesso, si affretterà nelle prossime settimane a salire sul carro della probabile vincitrice. È da un secolo che fa sempre così.