Francamente non riesco a comprendere questo dibattito sulle alleanze elettorali in ciò che resta della sinistra. Dal mio punto di vista è perfettamente logico e giusto che Pd e Movimento 5 Stelle non corrano assieme. I pentastellati, se non vogliono scomparire, devono puntare con forza a recuperare i tanti loro elettori che hanno scelto l’astensione. In gran parte si tratta di cittadini a torto o a ragione delusi dal governo Draghi e dalle diverse alleanze strette dal Movimento nel corso della legislatura. Non credo che nessuno di loro sarebbe disposto a rivotare i 5S se si presentassero a braccetto con il principale sponsor del passato esecutivo dei tutti dentro.
Per capirlo basta seguire le mosse e le dichiarazioni del personaggio pubblico che meglio rappresenta il popolo degli astenuti grillini: Alessandro Di Battista. Di Battista parla del tradimento di molti principi, di attaccamento alla poltrona, di rinuncia a combattere per una società diversa. Se questi sono alcuni dei motivi dell’astensione-delusione, e lo sono, è impossibile pensare che un’alleanza con i Dem possa portare a un’inversione di tendenza. Lo stesso discorso vale però per l’elettore tipo del Pd che ormai è da anni affezionato a un partito sempre più di centrosinistra (anzi quasi di centro) che di sinistra. Un partito disposto a battersi (giustamente) per i diritti civili, ma indisponibile a fare altrettanto per i diritti sociali.
Credo che molti di loro, specie nelle città dove il Pd fa il pieno, se vedessero i dem tornare con i 5 Stelle semplicemente voterebbero per Carlo Calenda. Conosco l’obiezione: ma se vanno divisi – cosa che peraltro ormai Letta e Giuseppe Conte dicono apertamente – lo schieramento di Giorgia Meloni vincerà tutti i collegi uninominali. È assai probabile. Ma sondaggi alla mano i collegi che al Sud potrebbero essere recuperati sono molto pochi e verosimilmente quello che verrebbe vinto nel maggioritario verrebbe poi perso nel proporzionale.
Il gioco insomma, anche dal punto di vista meramente numerico, non vale la candela. Meglio per entrambi andare da soli. Trovarsi, se è possibile, qualche compagno di strada diverso, ma non indigeribile per i loro elettori, e giocarsela così: da soli, a viso aperto.
Il risultato sarà la vittoria delle destre? È quasi scontato. Ma non si deve farne un dramma. Il Pd ha bisogno come il pane di stare finalmente all’opposizione. Dieci anni trascorsi quasi ininterrottamente al governo pur avendo perso le elezioni hanno contribuito a peggiorare la sua già non eccelsa classe politica.
Lo dimostra pure il surreale dibattito di queste ore sulle poltrone che porta i Dem a stabilire che la regola dei tre mandati vale per tutti, tranne per chi ottiene una deroga dai vertici, per gli ex ministri, gli ex premier e gli ex segretari. Traduzione: nel Pd la regola dei tre mandati non esiste, esiste invece solo quella della cooptazione: ovvero decide il segretario. E in fondo è logico che sia così, perché intanto il sistema elettorale, grazie ai listini bloccati e alle candidature della stessa persona in più collegi, rende assolutamente ininfluente il nome dell’aspirante parlamentare.
Anche per questo, a mio parere, i 5S farebbero bene a mantenere la loro regola dei due mandati. Una norma certamente ingiusta rispetto ai risultati rivendicati da qualche eletto, ma che almeno, se ben comunicata, ha il pregio di differenziarli dai loro avversari. Sembra una piccola cosa: ma solo chi il 26 settembre potrà dire “tutto è perduto, fuorché l’onore” sarà sì sconfitto, ma avrà delle basi su cui vincere in futuro.