A parole uniti contro il centrodestra, ma nei fatti non è così. Ci sono dissonanze tra le ambizioni del nascente Campo largo, il suo programma politico e gli esponenti che s’apprestano a farne parte. Nel dare le carte, il Pd ha chiarito le regole d’ingaggio: apertura a chi sostenne il governo Draghi – quindi fuori il M5S – e attenzione a lavoro, giustizia sociale, lotta alle disuguaglianze. Il paradosso è che molti di questi argomenti sono temi contenuti nell’agenda sociale M5S, proprio la forza politica che non farà parte del Campo largo, mentre a essere lusingate dai Dem sono altre figure che in passato hanno spesso contrastato alcune misure di contrasto alla povertà. Dal Reddito di cittadinanza al salario minimo. Temi cari anche a Speranza, ad Articolo 1 e Di Maio, che in quel Campo largo vuole esserci e ci sarà, ma non a Brunetta, a Calenda o all’universo renziano.
Chi non ha mai amato le misure sui temi sociali ora posti da Enrico Letta al primo punto del programma politico del Campo largo è certamente Renato Brunetta. L’ex ministro della Pa non ha mai fatto mistero della sua avversione nei confronti di Rdc e salario minimo, così come pensati in principio. La strenua difesa del governo Draghi e la fuoriuscita da Forza Italia ne hanno fatto però un pesce grosso, tanto da ricevere il plauso di Letta. Peccato che Brunetta abbia sparato sempre a zero su un certo tipo di agenda sociale: “Salario minimo e Rdc? Distruggono il mercato del lavoro”, diceva solo a giugno. E ancora: “Il salario minimo uccide la contrattazione, se lo mettiamo col Rdc abbiamo distrutto il mercato del lavoro”. Oppure: “Il Rdc costa 9 miliardi l’anno e deve funzionare meglio”. Sempre a giugno fece scalpore l’episodio che lo vide polemizzare con un uomo durante le amministrative. Si discute di lavoro e Brunetta, da un palco elettorale, bullizza l’uomo sotto di lui: “Sei un dipendente? E allora perché cazzo parli? Perché non ti metti in proprio?”. Brunetta non gli concede nemmeno la replica: “Non parli perché il microfono ce l’ho io e comando io”. E infine: “Mio padre lo diceva sempre ‘mai sotto padrone’ e questa cosa l’ho seguita nella mia vita”.
E che dire di Carlo Calenda? Per lui il Rdc “è una iattura per il Mezzogiorno”, a cercare lavoro “non devono essere i centri per l’impiego, ma le agenzie private”. La misura “non funziona e sta spingendo il lavoro nero. Dicono che manda su i salari, ma non è vero”. Sul salario minimo Calenda sposa la posizione Brunetta: giusto alzare i salari, ma non si ricorra alla legge. Anche Matteo Renzi ha sempre contrastato il Rdc tanto da voler presentare poche settimane fa un referendum per abolirlo. Mossa però subito stoppata visto che non si può depositare una richiesta di referendum nell’anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere. Cambia poco. Renzi sul tema è sempre stato chiaro, solo un anno fa diceva: “Voglio mandare a casa il Rdc, perché voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela. Bisogna sudare, ragazzi. I nostri nonni hanno fatto l’Italia spaccandosi la schiena, non prendendo sussidi dallo Stato”. Anche ieri ha picchiato duro: “Continueremo a combattere contro il Rdc, ho visto che nel Pd sono tutti a favore”. Uguale i suoi pretoriani: “Il Rdc non aiuta l’inserimento nel lavoro” (Andrea Marcucci), “Il Rdc è un fallimento” (Luciano Nobili), “La misura va sostituita” (Luigi Marattin), “Utilizziamo quei soldi per far costare meno il lavoro” (Maria Elena Boschi).
Insomma, siamo nella fase embrionale eppure il Campo largo pare già un coacervo di incoerenze e contraddizioni, oltretutto su temi che toccano da vicino la vita degli italiani. A giugno lo ha certificato anche l’Istat: in Italia ci sono 5,6 milioni di persone in condizione di povertà assoluta.