Caro direttore, in queste giornate dominate da balletti elettorali poco decorosi, la notizia del deposito della sentenza di assoluzione della Corte di assise di appello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia rischia di passare inosservata. Eppure merita tutta la nostra attenzione. Preciso subito che la rispetto perché la politica non può pretendere di sostituirsi e riscrivere le sentenze della magistratura. Ma dalle pieghe della motivazione emerge una considerazione che assume un forte rilievo politico sino a sfiorare una questione nevralgica del nostro sistema democratico. La trattativa di apparati dello Stato con i boss mafiosi c’è stata, osserva la Corte. E risulta ben documentata. Però non risulta che coloro che l’hanno condotta (gli ufficiali del Ros) abbiano ricevuto input politici da esponenti di governo o dalle alte cariche istituzionali.
A dirla in breve, fu una “improvvida iniziativa” di alcuni ufficiali dei carabinieri, quindi di un pezzo di apparato “esecutivo” dello Stato, iniziativa che però non configura gli estremi di un reato. Il giudizio di legittimità di questa “trattativa” riposa nel fatto che fu ispirata dalla “salvaguardia della incolumità della collettività nazionale” e dalla “tutela di un interesse generale, e fondamentale, dello Stato”. Se questo è il passaggio decisivo della sentenza – la “ratio decidendi” come direbbero i giuristi – se ne ricavano implicazioni davvero opinabili. D’ora in poi, se alcuni ufficiali o funzionari di apparati dello Stato, ispirati dall’obiettivo pur lodevole di evitare nuove attività criminali particolarmente efferate, dovessero intavolare negoziati con esponenti della criminalità organizzata, distinguendo boss da perseguire e boss da tutelare, sarebbero pienamente giustificati e non punibili. Non importa se agiscono di loro propria iniziativa. Non importa se questo loro negoziato taglia fuori tutti gli altri apparati e mette in pericolo altri ignari servitori dello Stato (magistrati, forze di polizia, intelligence) impegnati a tempo pieno in una lotta senza quartiere contro la mafia. Io sono del parere che la mafia vada combattuta senza tregua e a ogni livello istituzionale. Sono del parere che vada non solo combattuta con efficaci strumenti repressivi, ma anche contrastata con ampiezza di strumenti preventivi: culturali, sociali, economici.
Ma assecondiamo per un attimo il ragionamento che sembra sotteso alla sentenza di Palermo. Siamo sicuri che, nel caso in cui uno Stato decida di avviare una trattativa con gruppi criminali, questa iniziativa possa essere decisa e gestita in autonomia da singoli pezzi di apparati dello Stato, senza neppure che ci sia (questa è la conclusione della Corte di assise di appello di Palermo) una indicazione politica da parte di esponenti di governo che se ne assumano la responsabilità politica di fronte ai cittadini? E, soprattutto, siamo sicuri che sia legittimo che singoli apparati agiscano di loro iniziativa senza alcun coordinamento con le altre strutture interne dello Stato, anzi mettendo a repentaglio la vita di altri servitori dello Stato tenuti all’oscuro?
Consideriamo quindi pienamente legittima la coesistenza tra il comportamento di ufficiali dello Stato che con la mafia negoziano in proprio (per lodevoli finalità, s’intende) e la integerrima condotta di magistrati, come Falcone e Borsellino, che con la mafia non sono venuti a patti e per questo ci hanno rimesso la vita? Come si concilia la pretesa che rivolgiamo a imprenditori e negozianti di assumere un atteggiamento di massimo rigore nei confronti della mafia, senza nessuna concessione al pizzo e alle richieste estorsive, se poi lasciamo liberi singoli ufficiali e funzionari dello Stato di venire a patti con i boss? Una classe politica non distratta da giochi di potere e balletti di poltrone dovrebbe rispondere a queste domande, che sono cruciali per la concezione che abbiamo dello Stato, per lottare efficacemente contro la mafia, per garantire un’alta qualità della nostra convivenza democratica.