Per liberare gli oceani dalla plastica non è necessario solo togliere i rifiuti già presenti in mare, ma anche impedire che nuova plastica entri negli oceani. Da dove? Dai fiumi. Ce lo dice l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, al termine della Conferenza delle Nazioni Unite sugli oceani che si è svolta a luglio a Lisbona, dove i leader mondiali si sono riuniti per affrontare l’emergenza dovuta alla perdita di habitat e al degrado degli ecosistemi marini.
Il problema della plastica in mare è enorme e non recente: ogni minuto, un camion di rifiuti di plastica viene scaricato nell’oceano. Ogni giorno, 731 tonnellate di rifiuti finiscono nelle acque del Mediterraneo che presenta le concentrazioni di microplastiche tra le più alte al mondo. Sono almeno 11 milioni le tonnellate di plastica che vengono gettate ogni anno nei nostri mari, una quantità che si prevede possa quasi triplicare entro il 2040 senza un’azione urgente e su larga scala.
Lo scrive sempre l’Unep, commentando la dichiarazione adottata in seguito alla Conferenza. Se non si interviene, proseguono le Nazioni Unite, si prevede che, entro il 2040, l’equivalente di 50 kg di plastica per metro di costa in tutto il mondo finiranno nell’oceano ogni anno.
Il dato positivo è che cresce il numero di Paesi e istituzioni che, rendendosi conto dell’entità del problema, si impegnano per porre fine all’inquinamento da plastica. Sempre a luglio, infatti, anche Stati Uniti e Commissione europea hanno aderito ufficialmente alla Campagna delle Nazioni Unite “Clean Seas”, lanciata nel 2017. I Paesi che fanno parte della Campagna sono 69, coprono oltre il 76% delle coste mondiali e condividono gli sforzi per eliminare i rifiuti marini. L’aspetto importante riconosciuto dall’iniziativa è che è necessario partire dalla “fonte del problema”.
E il fatto che i fiumi siano una delle principali fonti di rifiuti plastici negli oceani lo conferma anche uno studio del 2021 dell’organizzazione no profit The Ocean Cleanup. Nello specifico, scrive The Ocean Cleanup, l’80% dei rifiuti di plastica proviene da più di 1000 fiumi. Non solo, la maggior parte dei rifiuti sarebbe trasportata dai piccoli fiumi che scorrono attraverso aree urbane densamente popolate, non dai fiumi più grandi. Così ad esempio, il fiume Pasig nelle Filippine, lungo poco più di 9 chilometri, sarebbe uno tra i più inquinati dalla plastica, dal momento che scorre attraverso la capitale del Paese, Manila, dove vivono 14 milioni di persone.
Nella ricerca di soluzioni alternative, allora, leader di Governo, individui e aziende private hanno iniziato a valutare sistemi che raccolgano i rifiuti dai corsi d’acqua dolce, prima che sfocino negli oceani.
Senza contare l’effetto sulla nostra salute e sull’ecosistema marino, ogni anno, la plastica marina costa all’economia da 6 a 19 miliardi di dollari, con un impatto sul turismo, la pesca e l’acquacoltura. Sono dati forniti dalla stessa The Ocean Cleanup che dal proprio sito avverte: “Intercettare la plastica nei fiumi è molto più conveniente che affrontare le conseguenze a valle”. A ciò si aggiunga anche che recuperare i rifiuti nei fiumi è il modo migliore per creare nuovi prodotti riciclati: il mare restituisce materiale molto più corroso e quindi con meno possibilità di essere riciclato al 100%.
In Italia ci sono già aziende e startup che hanno proposto progetti per risolvere il problema della plastica in mare partendo dai fiumi. Con la recente approvazione della Legge Salvamare, poi, la speranza è che si incentivi l’utilizzo di queste tecnologie. Adeguando l’impegno del nostro Paese alle direttive già intraprese in Europa, infatti, la legge tra le altre cose consente di recuperare la spazzatura presente nelle acque senza commettere reato di trasporto illecito di rifiuti.
A studiare un modo per risolvere il problema dei rifiuti plastici e oleosi in mare è stato, ad esempio, Vanni Covolo, Ceo di Mold S.r.l, azienda vicentina operativa nel settore dei materiali termoplastici, che ha fondato il progetto ecosostenibile River Cleaning Plastic & Oil.
Dopo un’esperienza di 30 anni nel settore termoplastico dell’automotive, Covolo ha deciso di “mettere le proprie capacità al servizio di qualcosa che potrebbe salvare diversi settori e risolvere il problema ormai tragico dell’inquinamento plastico nei mari”, racconta lo stesso fondatore di River Cleaning. “È un fenomeno globale e diffuso, che sta causando la rovina di interi ecosistemi. Oltre a questo però, è anche un fatto economico, in quanto sarebbe sicuramente meglio per aziende e Governi investire ora nella prevenzione piuttosto che tamponare il problema quando sarà troppo tardi”, ha spiegato.
La sua soluzione è completamente autoalimentata, ad impatto ambientale pari a zero, e non danneggia l’ecosistema: per questo motivo River Cleaning ha ottenuto anche la certificazione di sostenibilità Friend of the Sea. Fondato nel 2008 da Paolo Bray, Friend of the Sea è lo standard leader per prodotti e servizi che rispettano e proteggono l’ambiente marino. Con il suo logo, premia le pratiche sostenibili nei settori della pesca e dell’acquacoltura in tutto il mondo. Ed è anche un riferimento per i consumatori che, riconoscendo i prodotti di pesce (e derivanti dal pesce) certificati Friend of the Sea, possono compiere scelte alimentari consapevoli.
Tra i punti di forza di River Cleaning c’è proprio il fatto di sfruttare la corrente dell’acqua per alimentarsi ad impatto zero, senza danneggiare le specie preziose che vivono nei fiumi. Intervenire sui corsi d’acqua in questo modo è una soluzione da un punto di vista della sostenibilità molto più efficace e meno dannosa di operazioni quali il recupero di rifiuti dal mare, per cui ad una spesa energetica superiore corrisponderebbero risultati inferiori, tenuto conto anche del fatto che circa il 95% dei rifiuti si inabissa quando arriva negli oceani.
River Cleaning Plastic & Oil è in grado di funzionare 24 ore su 24, sette giorni alla settimana e riesce ad intercettare il 90% dei rifiuti galleggianti, come rivelano i vari test effettuati dall’azienda. Moduli fluttuanti simili a delle boe, posti a formare una barriera in diagonale lungo il fiume, bloccano i rifiuti e li indirizzano verso un punto di raccolta posizionato sulla riva. A seconda del tipo di rifiuto da raccogliere, che siano plastiche, oli o scarichi industriali molto pericolosi per l’ecosistema, i moduli boa presentano delle caratteristiche specifiche.
Inoltre, River Cleaning non impone alcun blocco della navigazione. Anche quando il sistema è in funzione, infatti, il passaggio delle imbarcazioni è sempre consentito.
Per studiare l’efficacia della sua soluzione, il team di Vanni Covolo ha dapprima eseguito dei test giornalieri nel fiume Brenta e poi installato a Rosà, in provincia di Vicenza, il primo impianto pilota. Da quest’anno, sempre nello stesso canale di Rosà, è operativa la versione aggiornata di River Cleaning, chiamata V4.22 che, oltre ad intercettare e raccogliere i rifiuti galleggianti, è in grado di generare corrente elettrica grazie alla rotazione delle boe.
“Stiamo attualmente dialogando con numerose amministrazioni ed enti in zona Veneto, Milano, Roma e Napoli per effettuare delle installazioni o test dimostrativi – prosegue il fondatore di River Cleaning – a breve infatti collocheremo degli impianti a Milano, sui Navigli, e nel Lazio, sul fiume Arrone”.
Proposte di collaborazione sono però arrivate anche da vari Paesi del mondo: “Il nostro obiettivo principale è quello di esportare il sistema in tutti quei Paesi in cui l’inquinamento delle acque è uno dei problemi che necessitano di essere risolti il prima possibile. Ci hanno contattato da diversi Paesi come India, Indonesia, Thailandia, Togo e Nigeria, poiché ci sono molti fiumi con alti livelli di inquinamento che devono essere ripuliti al più presto”.