L'intervista

Roberto Scarpinato spiega la sua candidatura con il M5s: “Siamo alla restaurazione della politica dei clan”

L’ex procuratore - In corsa a Palermo. Non solo lotta alla mafia: il magistrato voluto dai Cinque Stelle spiega il suo impegno contro gli interessi di pochi e in difesa della Costituzione: "I 5 Stelle non omologati, ergo bullizzati"

19 Agosto 2022

Dottore Scarpinato, perché ha scelto di impegnarsi in politica?

Per due motivi. Il primo è che nel gennaio scorso ho cessato di essere un magistrato a seguito del mio pensionamento e ho quindi riacquistato un diritto prima incompatibile con il mio ruolo. Il secondo è la consapevolezza che se tu non ti occupi della politica, la politica si occupa comunque di te.

Che intende?

Gli antichi Greci, inventori della democrazia, ritenevano un dovere primario di ogni cittadino occuparsi della politica, cioè della vita della Polis, perché avevano capito che non esistono vie di salvezza individuali. Se la Polis si ammala a causa della degenerazione oligarchica e autoritaria del potere, si ammalano anche le vite dei singoli.

Lei ritiene che oggi si stia rischiando una degenerazione del potere?

Siamo in una fase regressiva dello stato democratico che alcuni politologi definiscono come il ritorno della clanizzazione della politica. Il moderno stato costituzionale nasce dal superamento dei clan, cioè dei gruppi di potere locali che prima si contendevano a proprio esclusivo vantaggio le risorse dei territori. Oggi, venuti meno i grandi progetti collettivi, la contesa politica reale rischia di regredire a competizione tra clan sociali, gruppi di interesse, ristrette oligarchie interessate solo a spartirsi le risorse collettive.

Quali sono i motivi di questa regressione della politica?

Una pluralità concorrente di cause, alcune endogene legate cioè alla storia nazionale, altre esogene dovute a fattori di carattere internazionale. Quanto alle cause nazionali, basti ricordare che lo Stato italiano è sorto con molto ritardo rispetto ad altri stati europei, e, anche per questo motivo, ha sempre sofferto una fragilità strutturale. Ancora più fragile è la nostra democrazia, sempre a rischio di involuzione autoritaria. La nascita della prima Repubblica è stata tenuta a battesimo da una strage politico mafiosa, quella di Portella della Ginestra che ha segnato l’incipit della strategia della tensione, e si è conclusa nel sangue con le stragi politico mafiose del ’92 e ’93 che hanno rischiato di mettere in ginocchio lo Stato. Tra la prima strage e le ultime si è susseguita una sequenza pressoché ininterrotta di stragi con finalità politiche che non ha uguali in nessun Paese europeo, nonché una lunga serie di omicidi politici talora dissimulati sotto altre causali di copertura e come suicidi o incidenti.

Quali riflessi hanno avuto questi fatti nell’evoluzione politica italiana?

Questi e altri eventi dimostrano che nel nostro paese la lotta politica si è svolta su un duplice livello. Al livello palese e legalitario delle competizioni elettorali, della dialettica parlamentare e istituzionale, delle manifestazioni di piazza, si è intrecciato il livello occulto di una lotta politica condotta dietro le quinte dalle componenti più retrive delle classi dirigenti da sempre tenacemente ostili alla Costituzione e che non hanno esitato a mettere in campo la violenza stragista, nonché l’alleanza con le mafie ed altri specialisti della violenza, per condizionare a proprio vantaggio il gioco politico e per sabotare l’evoluzione democratica del paese.

È in questo contesto che si colloca la sistemica attività di depistaggio delle indagini sulle stragi?

Quasi tutte le indagini sulle stragi sono state caratterizzate da depistaggi posti in essere da apparati statali, con varie coperture politiche, finalizzati a coprire gli esecutori e impedire di individuare i mandanti e complici eccellenti. Il fatto che i depistaggi siano stati ripetuti anche per le indagini del ‘92 e ‘93 e abbiano continuato a susseguirsi sino a epoca recente, dimostra come questa modalità occulta di lotta politica non sia archiviabile come storia del passato e come il presente sia figlio del passato.

In che modo tutto questo influenza il dibattito sul fronte delle riforme della giustizia?

Alla luce di tale peculiarità della storia nazionale segnata da una criminalità di settori significativi delle classi dirigenti che nel tempo si è manifestata nello stragismo, nei patti occulti con le mafie e nella corruzione sistemica, è evidente perché in Italia la questione giustizia sia inestricabilmente intrecciata alla questione dello Stato e della democrazia, e non sia riducibile – come in altri paesi europei di democrazia avanzata – a mera questione di tecnicalità e di risorse. E si spiega anche perché in Italia la questione giustizia dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso sia sempre rimasta al centro del dibattito politico: caso unico al mondo. I miei colleghi stranieri non riescono a comprendere come e perché in Italia si arrivi a rischiare una crisi di governo per temi come la riforma della prescrizione che altrove interessano solo specialisti di settore e sono relegati ad argomenti secondari. Ho dovuto fare loro un breve riassunto della storia politica nazionale per spiegare quale era la vera posta politica in gioco dietro l’apparente tecnicismo della questione.

Perché la questione giustizia è diventata centrale a partire dalla seconda metà degli anni Settanta?

Dalla fondazione dello Stato Unitario sino agli anni Settanta non vi sono stati contrasti tra la politica e la magistratura. Tale armonia protrattasi per più di un secolo, era dovuta nel periodo della monarchia liberale e del fascismo a un ordinamento che sottoponeva il pubblico ministero alla direzione della politica, e al fatto che nei primi venti anni successivi alla nascita della Repubblica, la nuova Costituzione che garantiva l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, era rimasta in larga misura lettera morta. I vertici degli uffici giudiziari si erano formati culturalmente nel periodo precostituzionale e, tranne poche eccezioni, mantenevano un atteggiamento di sostanziale sottomissione alle direttive politiche. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, a causa della complessiva maturazione democratica del Paese e del ricambio generazionale nella magistratura, la nuova Costituzione diventa diritto vivente. Cessa la lunga stagione dell’impunità dei potenti, iniziano i primi processi che coinvolgono personaggi ai vertici della piramide sociale e ha inizio la narrazione di Palazzo di una guerra della magistratura contro la politica. La storia della ostilità del Palazzo nei confronti di magistrati come Giovanni Falcone, oggetto di campagne di delegittimazione, emarginato e ridotto all’impotenza dopo che aveva osato alzare il livello delle indagini oltre il livello della mafia militare, è emblematica e riassuntiva di mille altre storie similari.

Quale è la situazione attuale?

È in corso un inquietante processo di restaurazione del passato di cui si colgono tanti segnali. Nella patria del Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato, un passato di convivenza tra Stato e mafia, un passato di occulte transazioni tra Stato legalitario e Stato occulto, un passato di rimozioni e di amnistia permanente tramite amnesia collettiva, sta tornando ad essere la cifra del presente e del futuro.

Quali sono i segnali che ha colto?

Ritornano in campo da protagonisti della politica personaggi condannati per collusione con la mafia e per altri gravi reati. Si celebra nelle aule del Senato la memoria di vertici dei Servizi Segreti, come il generale Gianadelio Maletti, condannato per avere depistato le indagini sulla strage di Piazza Fontana. Si normalizza la cultura dell’omertà giustificando come motivazione eticamente condivisibile la scelta di non collaborare con lo Stato dei mafiosi stragisti irriducibili e depositari di segreti scottanti che chiamano in causa i complici eccellenti delle stragi del ’92 e ’93, autorizzando così con la riforma dell’ergastolo ostativo la loro fuoriuscita dal carcere solo alla condizione che sia provato che hanno deposto definitivamente le armi. Si approvano leggi che riportando indietro l’orologio della storia ai tempi del primo Novecento, ripristinano il trionfo della gerarchia nella magistratura e introducono surrettiziamente forme di controllo e di condizionamento della politica sull’attività giudiziaria.

Lei perché ha scelto i 5 stelle? In passato aveva mai avuto proposte da altri partiti?

Non avevo mai ricevuto proposte da alcun altro partito. E a dire il vero non sono io che ho scelto i 5 Stelle, ma loro che hanno scelto me, proponendomi una candidatura. Per me si è trattato di una scelta difficile e sofferta.

Perché?

Dopo trent’anni di stress e di rinuncia a una vita normale dovuti al mio impegno in prima linea sul fronte dell’antimafia che mi ha procurato tanti nemici e odi, avevo programmato una progressiva fuoriuscita di scena e di dare priorità ai miei affetti familiari.

E invece?

Una parte di me aveva bisogno di pace e tranquillità, ma alla fine ha prevalso l’altra parte, quella che ha fatto propria la lezione degli antichi greci alla quale ho accennato all’inizio di questa intervista: se la Polis si ammala, se la democrazia avvizzisce, se la prepotenza si autolegittima rivestendosi della forza della legge, se l’ingiustizia sociale diventa normalità quotidiana e se non hai l’anima del prepotente o del servo, non vi sono vie di uscita e di salvezza individuali.

Cosa le ha detto Conte per convincerla ad accettare?

Mi ha assicurato che la questione mafia, cancellata in questa campagna elettorale dall’agenda degli altri partiti, sarebbe rimasta invece centrale in quella dei 5 Stelle, come del resto dimostra sia il fatto che la scuola di formazione politica del Movimento è stata inaugurata a Palermo con un seminario sul tema dei rapporti tra mafia e politica proprio mentre altri celebravano il ritorno in campo di Dell’Utri e Cuffaro o restavano silenti, sia l’impegno profuso dai 5 stelle in Parlamento per mettere a punto una riforma dell’ergastolo ostativo che scongiurasse il rischio di una fuoriuscita dal carcere di pericolosi boss mafiosi. Inoltre l’attacco concentrico e incessante di quasi tutto l’establishment di potere nei confronti dei 5 stelle per le riforme promosse allo scopo di ridurre le sacche di impunità dei colletti bianchi, come la riforma della prescrizione e la legge Spazzacorrotti – un attacco che ha spesso travalicato i limiti della fisiologica critica politica, trascendendo in forme di bullismo mediatico – è dal mio punto di vista, un segnale significativo che non sono integrati e omologati nel sistema e che quindi hanno una capacità di proposta e di mobilitazione politica che può muoversi nella giusta direzione come forza di resistenza contro le manovre dirette a ripristinare una giustizia classista forte con i deboli e debole con i forti.

E cosa ha chiesto lei a Conte prima di accettare la candidatura?

Ho detto che mi consideravo come un candidato indipendente e che, quindi, mi riservavo il diritto di esprimere sempre le mie idee e di manifestare il mio eventuale dissenso da scelte che non dovessi condividere. L’indipendenza ha segnato tutta la mia pregressa carriera di magistrato e mi è rimasta cucita nell’anima. Una indipendenza che è garanzia che la funzione pubblica – magistrato ieri, forse parlamentare domani – viene esercitata nell’esclusivo interesse e al servizio dei cittadini, facendo barriera insormontabile a interessi e pressioni di gruppi di interesse.

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