Sembra impossibile, ma nel 2022 ancora non sappiamo quanta acqua è disponibile in Italia per essere prelevata dai fiumi (stante la capacità di invaso esistente oggi) o dalle falde: le stime oscillano dai 52 ai 142 miliardi di metri cubi all’anno. Tuttavia, secondo Ispra, “Il valore annuo medio di risorsa idrica disponibile per l’ultimo trentennio 1991-2020 si è ridotto del 19% rispetto a quello relativo al trentennio 1921-1950 stimato dalla Conferenza nazionale delle acque tenutasi nel 1971 e che rappresenta il valore di riferimento storico”. Per quanto riguarda i consumi, sono noti i dati per uso civile: un consumo medio pro-capite di 220 litri al giorno contro una media europea di 165 litri, il che significa che una famiglia media (2,3 persone per nucleo familiare) consuma circa 500 litri d’acqua al giorno, un dato che presenta consistenti variazioni a seconda dei territori presi in esame. Si erogano ai cittadini circa 4,7 miliardi di metri cubi l’anno, ma a causa delle perdite delle reti di distribuzione si prelevano da pozzi, sorgenti o fiumi oltre 9 miliardi di metri cubi. Le stime sugli usi industriali non sono mai state aggiornate da oltre 20 anni, ma è ragionevole ritenere che siano ormai largamente inferiori agli 8 miliardi di metri cubi stimati nel 1999. L’incertezza maggiore riguarda gli usi irrigui. Il Censimento dell’Agricoltura 2010 stima che per irrigare i 2,42 milioni di ettari di superficie irrigua nazionale si impiegano circa 11,1 miliardi di metri cubi all’anno, che tenuto conto delle elevate perdite di distribuzione delle reti irrigue implicherebbe un prelievo di circa 25 miliardi di metri cubi. Però solo nel distretto
del Po, secondo il Piano di Gestione delle Acque, l’agricoltura comincia a soffrire già con una disponibilità inferiore ai 18 miliardi di metri cubi. In definitiva ancora non sappiamo quanta acqua preleva, disperde e
consuma il settore agricolo, di gran lunga il maggior utilizzatore di acqua in Italia. Un primo intervento dovrebbe dunque consistere in una esauriente raccolta di dati per quantificare correttamente le dimensioni del problema. Il passo successivo richiederebbe l’elaborazione di una strategia nazionale
integrata; trascurando gli impieghi industriali che rappresentano meno del 15% dei consumi totali e sono già in ulteriore diminuzione, le principali indicazioni riguardano gli usi civili e quelli agricoli. Per gli usi civili le
linee di intervento sono principalmente due: la riduzione delle perdite nella distribuzione ed incentivi per favorire la diffusione di soluzioni che nel resto d’Europa si stanno diffondendo, come la raccolta della pioggia ed il riuso
delle acque grigie depurate. Le stesse considerazioni si possono fare a grandi linee per gli usi agricoli, con la differenza che andrebbero fatte considerazioni diverse a seconda dei contesti (ad esempio la dispersione negli impianti di irrigazione può contribuire ad alimentare le
falde sotterranee); in linea di principio sarebbe utile favorire – nel rispetto comunque della conservazione delle biodiversità- la diffusione di varietà resistenti alla siccità, colture autunnali ed invernali (mesi nei quali piove di più) e sistemi di irrigazione moderni come ad esempio l’adozione di strumenti e tecniche di agricoltura digitale per l’irrigazione di precisione. Il regolamento UE 741/2020 promuove il riuso in ambito irriguo delle acque
reflue, ma sulla base delle stime esistenti pare che in Italia non più del 4% di queste siano oggetto di riuso diretto in agricoltura.
È importante trattenere l’acqua sui territori, quando invece ad oggi le pratiche messe in atto e la crescente impermeabilizzazione dei suoli ne favoriscono il veloce scorrimento verso il mare. Il luogo migliore dove stoccare l’acqua è la falda, ogni qual volta ce n’è una, che può essere ricaricata in modo controllato evitando la realizzazione di nuovi invasi che comporterebbero un conseguente aumento del consumo di suolo ed
alterazione delle portate dei corpi idrici, con ripercussioni sugli habitat e quindi sulla conservazione della biodiversità; le soluzioni vanno comunque individuate analizzando i singoli casi, ad esempio è possibile immaginare il ricorso a piccoli invasi collinari, anche con il recupero delle aree di cava dismesse, con interventi realizzabili in tempi ragionevoli e con impatti ambientali accettabili.
In conclusione: monitorare la situazione esistente, programmare interventi in regime ordinario superando l’abitudine all’emergenzialità, individuare il reperimento delle risorse finanziarie, sostenere politiche di riduzione
dei consumi idrici in ambito urbano, definire strategie di trasformazione del sistema agroalimentare, investire nella riqualificazione morfologica ed ecologica dei corsi d’acqua e del reticolo idraulico, avviare una diffusa
azione di ripristino ambientale con particolare attenzione alla rinaturazione fluviale in coerenza con gli impegni della Strategia Europea per la Biodiversità. Le soluzioni indicate sopra sono già (o dovrebbero
essere) tra le misure previste dai Piani di Gestione dei bacini idrografici e dettagliate nell’ambito dei Piani Regionali di Tutela delle Acque, come prescritto dal D.Lgs 152/06. Ci attendiamo che le proposte delle associazioni vengano prese in esame dagli organi amministrativi competenti e non ignorate in silenzio, come spesso accade dando l’impressione che le associazioni non siano propositive. Come ben sa chi si
occupa di ambiente, “fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”. E chi urla più forte non per questo ha la ragione dalla sua.
22 Agosto 2022