Si fa presto a dire che la par condicio è superata, vecchia, anacronistica, come hanno fatto di recente alcuni commentatori. La verità è che grazie a questa legge, criticata, discussa, osteggiata sin dal suo nascere, si è messa una pezza a un sistema televisivo duopolistico che sotto elezioni, prima del suo avvento, aveva dato il peggio di sé in fatto di pluralismo. Soprattutto per la sua componente privata in capo a Berlusconi, che, lo si ricordi, verso la legge scatenò tra il 1999 e il 2000, senza successo, un’imponente campagna contro (gli aerei con gli striscioni, l’ostruzionismo parlamentare, la valanga di emendamenti, l’oscuramento delle sue tv): definendola, figuriamoci, una norma liberticida. Proprio nelle elezioni europee del ’99 aveva approfittato del mancato rinnovo dei decreti Gambino (detti appunto di par condicio e risalenti al ’95) – una scelta fatta con troppa leggerezza da Prodi – per fare man bassa di spot e propaganda sulle sue reti. Nonché di consensi nell’urna. Fa dunque specie che oggi, invece che pensare a regolare il far west del web e dei social per garantire a tutti pari condizioni, almeno nel periodo elettorale, ci si acconci, in un certo giornalismo d’opinione impressionistico, a emettere giudizi generici sulla legge, sulla scorta della fallace idea di un ormai raggiunto pluralismo della Rete. Del resto B. ha sempre odiato una legge che gli impediva di farla da padrone, soprattutto nei periodi sensibili come prima di un appuntamento referendario o elettorale. Proprio l’esistenza della par condicio, per inciso, obbligò Mediaset subito prima del voto del 2006 a trasmettere un comizio di Prodi per potere fare altrettanto con uno di Berlusconi (anche se quest’ultimo andò in onda alle 24 e Prodi all’una di notte).
E se non riuscì, negli anni del suo governo, a cancellarla, è stato perché pure i suoi alleati furono ben consci di quanto un vuoto legislativo potesse danneggiare anche loro. Del resto non c’è nemmeno bisogno di andare molto indietro per trovare argomenti a favore della legge emanata il 22 febbraio del 2000: come documentato già su questo giornale, da quando le Camere sono state sciolte la rete ammiraglia di Mediaset, la più seguita, cioè Canale 5 con i suoi programmi d’informazione tiggì compreso, ha regalato a Forza Italia e al suo leader i più elevati tempi di parola, nonostante la ridotta consistenza parlamentare e i sondaggi calanti che ne fanno un partito ben sotto il 10%. I dati dell’Agcom dal 22 luglio al 20 agosto sono chiarissimi: nel Tg5 a Berlusconi è andato oltre il 20% del tempo di parola, primo tra i politici, e a Forza Italia, prima tra i partiti, il 22%. Anche nei programmi della rete la sproporzione è evidente e si ripete, assegnando agli ‘azzurri’ un quinto del tempo: più di tutti gli altri. Insomma Canale 5 si conferma la rete proprietaria per eccellenza. Un deplorevole squilibrio che neanche l’esistenza della par condicio riesce ad evitare. Quindi altro che Agcom ‘bizantina’, come ha colpevolmente affermato un Letta particolarmente distratto, dopo la censura dell’autorità al confronto tra lui e la Meloni a Porta a Porta che, a poche ore dal voto, avrebbe conferito loro di certo un vantaggio sugli altri. Bene ha fatto, anzi, il garante a ribadire le regole e bene avrebbe fatto lo stesso leader Pd a difendere quelle stesse regole, invece di mostrare così scarsa attenzione e un pizzico di fastidio. Regole infine che se dovessero saltare lascerebbero il campo libero, non c’è dubbio, alla sola legge del più forte. Perché in fatto di televisione, con buona pace degli ottimisti digitali mezzo ancora centrale nell’universo della comunicazione, sappiamo chi si ritaglierebbe la parte del leone. Anche per le storiche responsabilità delle sinistre.