Per carità, lo spauracchio antifascista non si porta più, lo avrete notato tutti. Suona cafone, è roba superata, al pericolo di una svolta autoritaria non ci crede nessuno, tirandola fuori in campagna elettorale fate solo un favore alla Meloni…
In effetti sui giornali e in televisione hanno smesso di definire Fratelli d’Italia “partito di estrema destra” o addirittura – non sia mai – “populista”. Lo storico Ernesto Galli della Loggia, recidivo dopo la sbandata che sei anni fa lo portò a dichiarare il suo voto per i Cinquestelle, ora celebra il passaggio epocale che staremmo per vivere: l’auspicabile superamento della contrapposizione tra fascismo e comunismo, retaggio antidemocratico novecentesco che secondo lui rischia di inquinare ancora il confronto politico in Italia. E pazienza se Giorgia Meloni rivendica la sua “ferma ribellione nei confronti dell’antifascismo politico”, maturata in una trentennale militanza nel solco di Almirante, Rauti e Fini. Chissà che, sulle ceneri dell’arco costituzionale, una volta insediata a Palazzo Chigi, ella non trovi pure la formula magica di chissà quale “antifascismo non politico”.
È stato Mario Draghi in persona a rassicurare gli italiani, nei giorni scorsi: “Il prossimo governo ce la farà, qualunque sia il suo colore politico”. Il vecchio ma arguto Rino Formica ne ha tratto la convinzione che Draghi stesse offrendosi come “lord protettore” alla predestinata, volentieri disposto a sovrintendere all’operato del nuovo esecutivo dall’alto della sua autorità extra-istituzionale e dei suoi legami internazionali. L’entourage della Meloni ha mostrato subito di gradire l’offerta. Lei ha ricambiato la cortesia dichiarandosi contraria a ogni ipotesi di scostamento di bilancio nei prossimi decreti governativi. Ha smesso da tempo di additare Draghi quale esponente delle odiate “consorterie europee”, preferendo esibire, anche dall’opposizione, una fruttuosa consuetudine col premier. Tipica giravolta italiana: Meloni e Salvini si sono scambiati i ruoli dell’amica e del nemico nei rapporti con Draghi. E figuriamoci se sulla scia non ci si metteva pure il draghiano Calenda, lasciatosi sfuggire ieri che assieme alla Meloni lui ci farebbe volentieri un governo di unità nazionale.
Perdonerete se cedo alla tentazione di ricorrere a qualche precedente storico, oltre che a una certa conoscenza dell’elasticità con cui la classe dirigente italiana usa adeguarsi ai rapporti di forza; ma questa storia del “lord protettore”, espressione di una borghesia liberale fiduciosa di saper addomesticare la spinta arrembante della destra vittoriosa, mi lascia assai scettico.
Se vi sembra troppo ricordare che nel 1922 Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica, salutò come evento benefico la marcia su Roma, e che il direttore del Corriere della Sera dell’epoca, Luigi Albertini, s’illudeva di poter usare i fascisti come una ramazza per restaurare la pace sociale (da liberali perbene, entrambi cambiarono presto idea), almeno teniamo a mente come andò con Berlusconi. La Confindustria s’illuse di cavalcare il Cavaliere finché lui, imbizzarrito, rischiò a colpi di spread di disarcionare l’intera economia italiana. Vani risultarono i tentativi di mettergli al fianco persone di fiducia dell’establishment; mentre, al contrario, si moltiplicarono i percorsi inversi dei boiardi di Stato lieti di assecondare, per i propri interessi, il sistema di potere berlusconiano.
A poco serviranno le aperture di credito rivolte alla vincitrice annunciata da chi fino all’altroieri la guardava dall’alto in basso. La destra ha radici profonde nella società italiana; e nei momenti di crisi delle istituzioni, di tensioni internazionali e di malessere diffuso sa esprimersi con una forza intimidatrice che rimarrà trattenuta, temo, solo da qui al 25 settembre. Se necessario utilizzerà il “lord protettore”, salvo poi sbarazzarsene a tempo debito.
Risulto pacchiano e fuori moda, mettendo per iscritto questi avvertimenti? Pazienza. Ma non mi si venga a dire che sto rivolgendo lo sguardo al passato (il quale, per definizione, non torna) anziché al futuro. Meglio faremmo a rivolgere uno sguardo d’insieme alla guerra che sta già provocando divisioni tra i Paesi europei, a un’inflazione fuori controllo, alla crisi energetica foriera di razionamenti, agli strascichi della pandemia, alla sanità e alla scuola pubblica entrate in affanno. Stiamo parlando del 2022, non del 1922. È oggi che negli Stati Uniti la democrazia viene considerata a rischio, mentre, a cominciare da Putin, figure minacciose di potere autocratico dominano la scena intorno a noi, sempre più vicine. Per quali ragioni, strutturali e culturali, dovremmo credere che nel nostro Paese sia da escludersi il pericolo di un’involuzione autoritaria? E da chi, se non dall’interno della destra vittoriosa, vi aspettate che possa venire?