Tutti i manuali di ecologia e selvicoltura riportano che i boschi migliori sono quelli misti, disetanei e dove l’eventuale utilizzazione deve seguire l’esempio della natura, prelevando senza disturbare la struttura forestale e senza alterare gli habitat presenti; sono proprio gli alberi più vecchi e più alti a dare la dimensione dell’ecosistema foresta, creando uno spazio di biodiversità che qualora vengano tagliati ringiovanendo il bosco si riduce drasticamente. La biodiversità è alla base della vita come oggi la conosciamo, dati precisi mostrano come l’uomo l’abbia già ridotta di circa il 50% e l’80% di quella che resta è conservata nei boschi e nelle foreste, soprattutto quelle vergini o vetuste, che sono più evolute, complesse, ricche e resilienti. Invece in altri contesti si sostiene che i boschi vanno gestiti e tagliati per garantirne una maggior stabilità, che è bene ringiovanire i popolamenti forestali per renderli più resistenti alle tempeste di vento. Si incentivano le centrali a biomassa legnosa che hanno un rendimento davvero basso ed emettono nell’atmosfera CO2 bruciando organismi che erano invece capaci di assorbirla ed immagazzinarla nel loro legno. Utilizzare il legno per produrre energia è lo spreco più grande che si possa fare, ed è lecito solo quando si tratta di scarti di segheria, che altrimenti andrebbero buttati; nei piccoli borghi di montagna bruciare la legna per scaldarsi può essere ancora sostenibile, purché siano eliminati caminetti o stufe di vecchia concezione per utilizzare invece apparecchi efficienti che consumano poca legna e non producono inquinanti. Ma tagliare alberi per poi bruciarli è davvero una follia, si taglia un organismo capace di assorbire CO2 per ottenere energia con un processo di combustione che invece ne produce e immette nell’aria anche polveri sottili estremamente nocive.
Mai come in questo momento gli alberi ed i boschi sono visti solo come una merce uguale a molte altre, addirittura come una parziale soluzione ai problemi energetici che ci colpiscono. L’albero un tempo veniva considerato un individuo con proprie caratteristiche e peculiarità, utile a svariati fini ma sempre scelto e valutato con cura ed attenzione. Oggi la merce legno è diventata più o meno tutta uguale all’interno di processi di esbosco e lavorazione meccanizzati ed uniformati, in nome di maggiori rendimenti e di una presunta economicità si preferiscono interventi generalizzati, effettuati con mezzi meccanici invasivi che possono operare solo con tagli raso, non certo scegliendo i singoli alberi.
Questo tipo di approccio produttivistico è alla base dell’attuale fragilità dei nostri popolamenti forestali, poiché strutture monospecifiche e coetanee sono molto più sensibili a tempeste di vento e nevicate pesanti, e soprattutto ad attacchi parassitari. Gli insetti sono quasi sempre specifici, per esempio il bostrico colpisce l’abete rosso e la coleophora laricella il larice, e quando uno di questi insetti trova le condizioni favorevoli per riprodursi in modo eccezionale, in seguito a disequilibri che provocano sofferenza nella pianta ospite improvvisamente incapace di respingere i loro attacchi, la presenza di ettari ed ettari coperti prevalentemente dalla specie prediletta moltiplica il potenziale riproduttivo del parassita che diventa un vero e proprio flagello. Lo stesso fenomeno possiamo vederlo nelle pinete delle zone pedemontane che sono tutte colpite dalla processionaria: ma siamo stati noi a piantare quei popolamenti artificiali tutti della stessa specie, il pino nero, e della stessa età, creando le condizioni ideali per l’esplosione del parassita.
Il riscaldamento globale è causa di un ulteriore stato di stress: due gradi in più di temperatura per un organismo che non può spostarsi o difendersi comportano una situazione di debolezza e malessere che insetti, funghi, batteri percepiscono immediatamente arrivando in massa per approfittare della situazione e innescando la distruzione di migliaia di piante. L’aspetto che più mette in crisi gli alberi ed i boschi è la velocità con cui avvengono questi cambiamenti: in passato, per esempio quando le Alpi sono state interessate dall’ultima glaciazione, questa è avvenuta in tempi molto più lenti dando modo alle piante di spostarsi in zone non ancora coperte dai ghiacci, riuscendo così a salvarsi e a ripopolare successivamente gli antichi territori. Ma l’attuale crisi climatica, proprio perché provocata dall’uomo, è caratterizzata da velocità eccezionali che non permettono ad organismi come le piante di adattarsi o di spostarsi in tempo.
Non dobbiamo valutare i boschi solo per quel piccolo rendimento economico datoci dal legname da opera o dalla legna utilizzata per produrre energia, ma per tutti i servizi ecosistemici che ci forniscono, che hanno un valore ben più alto ma difficilmente monetizzabile: la mitigazione del clima, la produzione di suolo, la conservazione e la regimazione dell’acqua, la difesa idrogeologica, la funzione sanitaria e turistico-ricreativa, la salvaguardia della biodiversità. Il vero tesoro sta proprio negli alberi e nei boschi in piedi, vivi, ricchi e biodiversi, e non nel legno che ne possiamo ricavare, soprattutto quando lo bruciamo. Un bosco non è un insieme di alberi ma un vero e proprio ecosistema, un mondo di biodiversità su cui si regge tutta la vita del pianeta e una volta perso non è riproducibile neppure grazie alle tecnologie più raffinate.