Ripubblichiamo un’intervista del 2019 ad Annie Ernaux, che oggi ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura.
“La novità del #MeToo è stata la messa in discussione dei miti della virilità. E c’è qualcosa di più e, secondo me, di irreversibile: la scoperta di non essere sole con la propria vergogna”. A un anno e mezzo dalla nascita di quell’hashtag che ha creato nel mondo un’immensa ondata di proteste e denunce e che oggi sembra invece essersi cristalizzato in una pagina Wikipedia, la scrittrice francese, 78 anni, ne rivendica l’eredità. Finalista al Premio Gregor von Rezzori, Ernaux sarà protagonista di un incontro con la giuria oggi al Gabinetto Vieusseux di Firenze. Nel 2018 la casa editrice L’Orma ha pubblicato in Italia il suo Una donna, scritto nel 1987, subito dopo la morte della madre.
La penna di Annie è una lama tagliente, che incide nel profondo dell’umano sentimento lasciando al lettore l’impressione di essere lui sotto quel ferro. Una scrittura lucida, asciutta. E una cicatrice pulita. Sempre dalla parte delle donne.
Signora Ernaux, è stata accusata di essere troppo o troppo poco femminista. Lei come si sente?
Quando ho cominciato a scrivere, negli anni 70, non mi preoccupavo di essere o no una femminista, scrivevo solo della mia vita reale di donna. E ciò ha prodotto il risultato di essere percepita in modo contraddittorio: troppo femminista dai sostenitori della famiglia tradizionale, non abbastanza da alcune femministe che avrebbero preferito libri di lotta. Il femminismo non può essere decretato, si dimostra nel proprio modo di vivere e di scrivere. E oggi ha anche i volti di donne benestanti e colte, spesso di origine borghese, nelle quali negli anni 70 non mi riconoscevo.
Della “rivoluzione” sembra siano rimaste solo le polemiche contro Delon o Allen. Il #MeToo è stato un movimento così superficiale?
Al contrario, credo che abbia rotto il silenzio sul potere che si arrogano gli uomini sul corpo femminile. Non tutti, evidentemente. Ma tutti approfittano del consenso implicito della società secondo cui all’uomo è permesso flirtare pesantemente. Il Movimento ha messo in discussione, per esempio, il dogma che l’uomo ha più bisogno del sesso della donna e che perciò ha più diritti. Poi abbiamo scoperto di non essere sole con la nostra vergogna. È ciò che accadde negli anni 70 dopo il Manifesto delle 342 puttane che dichiaravano di aver abortito.
Il romanzo è dedicato a sua madre ma si intitola Una donna. Che differenza c’è?
Non mi è mai venuto in mente di scegliere come titolo “Una madre”, tanto sono certa che non si possa confondere l’essere una ragazza, una donna, con l’essere una madre. La madre non smette mai di essere una donna mentre si può, mentre i figli crescono, sentirsi più o meno madre. Mia madre incarnava la forza e la libertà, faceva un lavoro, la commerciante, che la portava a vivere socialmente fuori di casa. Mi ha incitato a fondare il mio futuro su una professione, il futuro di donna prima di tutto, e la maternità non faceva parte dell’essenziale.
Nel romanzo definisce l’infanzia di sua madre come un appetito mai sazio. Oggi l’infanzia dei bambini occidentali sembra sia una pancia satolla. È così?
Mia madre nella sua infanzia ha patito la fame vera. Per il resto, giocattoli, libri, vestiti, si accontentava di una scarsità che era condivisa con le famiglie numerose di operai e contadini. Sarei tentata di dire che quel mondo è scomparso perché i negozi traboccano di cibo, ma basta guardare ciò che la gente poggia sui nastri del supermercato, per vedere che i consumi sono molto ineguali.
Lei stessa si è riscattata dalla condizione originaria della sua famiglia e ha cercato di non ripetere gli errori di sua madre. Ci è riuscita?
Ciò che conta per l’individuo, uomo o donna, è la quantità di scelte che gli si parano davanti. Mia madre ne aveva poche: ben educata o no, doveva lasciare la scuola per guadagnarsi da vivere. Ma senza diplomi è riuscita a raggiungere una vita migliore di quella dei suoi genitori e dei suoi fratelli. Soprattutto, la sua ammirazione per il sapere l’ha portata a fare di tutto perché io studiassi a lungo. Rappresenta per me un modello di coraggio e di volontà, di femminismo perfino. In fondo io sono il suo successo. Ma dentro di me questa parola non ha altra realtà se non quella di arrivare alla fine del libro che ho iniziato e di dirmi: l’ho fatto!
Si può essere netti e tracciare una linea tra una buona e una cattiva madre?
È infinitamente difficile! Posso dire che mia madre è stata una buona madre, ma per certi aspetti – la sua paura del sesso, il suo continuo controllo, per quella che mi appariva come la sua violenza – non lo è stata affatto. Ho voluto evitare di ripetere questi errori agli occhi dei miei figli. Alla fine ciò che conta è l’eredità interiore che una madre lascia.
Una domanda politica. Dalle urne è uscita un’Europa complessa e disomogenea. Come giudica il voto?
Il risultato delle Europee in Francia segna il trionfo dell’estrema destra xenofoba con Marine Le Pen e della destra liberale incarnata da Macron. Si tratta degli elettori più vecchi e più ricchi che alle Presidenziali avevano votato per lui, alcuni di loro probabilmente ex elettori della destra tradizionale. Per questo il suo piccolo scarto con Le Pen non può essere considerato una disfatta. Ma è spaventoso che non ci sia più una forza politica di sinistra capace di difendere la giustizia sociale. Dubito che i verdi possano rappresentare le aspirazioni e gli interessi di una larga parte delle classi popolari.
Infine la letteratura. In Italia c’è una nuova generazione di scrittrici. Le conosce?
Conosco meglio quelle della generazione vicina alla mia, Cristina Comencini, Milena Agus, Elena Ferrante. Tra le giovani, apprezzo moltissimo Nadia Terranova. Ciò che è terribile è che potrei citare di più gli scrittori, non perché sono in numero maggiore, ma perché godono di una maggiore visibilità, sono più tradotti. Dubito che possiamo individuare una tendenza diversa nel mondo. D’altronde, i cambiamenti nella società non si traducono immediatamente nella letteratura.