Monsignore Ricchiuti, a marzo aveva pubblicato l’appello “Tacciano le armi”. Sono passati sette mesi, non hanno taciuto. In Ucraina si vieta la pace anche per decreto. Lei ci crede ancora?
Dal punto di vista emotivo è un momento difficile, fa stare molto male. Non riesco a comprendere come sia possibile ignorare le ragioni del dialogo. Non me ne faccio una ragione: perché nessuno lavora per mettere intorno a un tavolo Putin e Zelensky? Perché si resta sordi, ancora, di fronte all’ultimo appello della più alta autorità morale del mondo, Papa Francesco, per amore di quei popoli? È mancata l’Europa, è inesistente l’Onu: non c’è forza di interposizione in questo massacro.
Non crede che le armi siano state cruciali per consentire all’Ucraina di difendersi e riacquistare terreno?
Non sono un geopolitico o un analista, sono un vescovo e presiedo il movimento Pax Christi. Non ho mai negato che ci sia stata un’aggressione brutale da parte di Putin, ma mi chiedo: chi è che vuole negare ogni ipotesi di negoziato e spingere a tutti i costi per una vittoria militare dell’Ucraina e una sconfitta della Russia? A chi conviene? Solo a Zelensky e al suo popolo? O ci sono altri interessi? Non sono in grado di rispondere a questa domanda, ma credo che le ragioni della guerra e delle armi siano anche nei miliardi e miliardi che gli Stati stanno consumando per sostenere militarmente l’Ucraina.
Nella sua missione in Ucraina che risposte ha trovato?
Sono stato tra Odessa e Mykolaiv con una carovana per la pace, dal 29 agosto al 3 settembre. Eravamo in 50. Abbiamo sentito gli ululati delle sirene e le esplosioni, assistito a una scuola materna distrutta dalle bombe a grappolo, visto l’acqua dei rubinetti uscire nera per i dissalatori distrutti. C’era un silenzio disperato nella gente. E in quel silenzio, nessuna risposta, ma un’altra domanda: perché?
In un editoriale della rivista Mosaico, Tonio Dell’Olio descrive la galassia pacifista come un “arcipelago senza ponti”. È d’accordo?
In Italia i sondaggi hanno mostrato che c’è un sentimento pacifista maggioritario, eppure martedì il ministro Guerini ha firmato il quinto decreto per inviare altre armi. Credo si sia scelto sin dall’inizio di non ascoltare chi era contrario. C’è stato un “pensiero unico” che ha raccontato la guerra a senso unico, senza mai una feritoia di speranza. Come se esistesse solo il racconto dei combattimenti e la prospettiva militare. Ma il movimento pacifista ha il dovere di riunirsi.
Giuseppe Conte ha lanciato sull’Avvenire la proposta di una grande manifestazione di piazza. Crede ci sia margine per provare a ricucire una tela pacifista tra la politica e la società civile?
Credo sia davvero necessario e tutto sta andando verso questa direzione. Non possiamo continuare a stare zitti. Anche noi pastori della Chiesa italiana, ce lo continuiamo a chiedere ogni giorno: quello che facciamo è sufficiente? Cosa dobbiamo fare? L’idea dell’ex premier è corretta: credo ci siano le condizioni per promuovere un movimento visibile, di piazza, senza bandiere di partito, per dire che serve la diplomazia, che bisogna far sedere le parti attorno a un tavolo. Per gridare: basta distruzione. Non siamo noi che possiamo ridestare da soli la diplomazia internazionale, ma la nostra voce può servire. E per servire dobbiamo essere tanti. Tanti. Una vera mobilitazione.
Lo scenario nucleare sta entrando nei discorsi quotidiani: un’ipotesi corrente e non più un romanzo di fantascienza. Le fa impressione?
Moltissimo. Io ho compiuto 74 anni e vengo da una generazione che si è impegnata tanto su questo. La forza dei pacifisti, della non violenza, era capace di smuovere le acque. Ora sembra che abbiamo dimenticato tutto: i 150 mila morti di Hiroshima e Nagasaki e le devastazioni ambientali. Noi italiani abbiamo detto no al nucleare con un referendum, eppure c’è chi torna a parlarne come se nulla fosse. Qualcuno sostiene che una grande piazza pacifista possa indebolire l’Italia a livello internazionale, io penso il contrario: darebbe lustro a un Paese che assume su di sé un’iniziativa storica, vitale. L’opinione pubblica parla di bombe tattiche nucleari come se fossero giochi dei bimbi, mi chiedo quante responsabilità abbiano i mezzi di comunicazione in questa perdita di memoria collettiva.
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