In via preliminare, sarebbe utile sgombrare il campo da depistaggi ed esorcismi nella discussione che si è aperta nel Pd dopo la bruciante sconfitta. Si dice: il Pd deve sciogliere il nodo preliminare della propria identità e solo a valle ragionare circa le proprie alleanze. Assunto alla Catalano. Chi potrebbe eccepire circa una tale banalità?
Ma domando: se non si vuole ricadere nella suicida presunzione dell’autosufficienza coltivata prima da Veltroni e poi da Renzi come può, un partito del 19%, immaginare una opposizione efficace oggi e un’alternativa domani senza alleanze? E come ignorare il nesso tra identità e alleanze con soggetti affini o meno distanti?
Ancora: nonostante la sciagurata divisione che si è prodotta nelle recenti elezioni è ragionevole rinnegare la collaborazione che si è sperimentata a monte del governo Draghi (“privo di una formula politica”) nel Conte-2 e nella tornata delle Amministrative dall’esito opposto a quello del voto politico nazionale? Ovvio che non si debba ridurre il dibattito congressuale del Pd a un referendum tra chi opta per Calenda e chi opta per Conte. E tuttavia, domando, il chiarimento identitario a parole da tutti auspicato è compatibile con la conclusione che l’uno o l’altro alleato pari sono o anche solo che si possano praticare indifferenza/equidistanza verso di loro?
Se avesse ragione Letta nell’attribuire la sconfitta del Pd alla “incapacità di rappresentare chi non ce la fa”, la risposta potrebbe condurre a sposare la linea di Calenda? Separare identità e alleanze mi sembra un esorcismo.
Un po’ tutti, dentro il Pd, sembra abbiano inteso finalmente che tra i mali endemici del partito vi sia il falso unanimismo delle deliberazioni formali, che è l’altra faccia della logica spartitoria e negoziale tra le cordate personali (fossero correnti!) che da sempre governano il Pd; e che, di conseguenza, per venire a capo della sua débâcle, sia d’obbligo ricentrare il confronto sugli effettivi orientamenti politici, portandoli in superficie e facendo di essi il cuore di una dura, franca contesa congressuale davvero centrata sulla identità irrisolta del Pd.
Semplifico ma non troppo: tra un Pd liberal-democratico e di centro – quello che, in effetti, conosciamo – e un Pd laburista e di sinistra (di governo). Senza che gli uni facciano la caricatura degli altri, chiamandosi reciprocamente con il proprio nome. Non facendo cioè una caricatura dell’alternativa: riformisti versus massimalisti. Una palese mistificazione. Cui, dal versante opposto, si potrebbe replicare: liberisti versus veri riformisti, cultori dello status quo versus chi si batte per il cambiamento, partito dell’establishment versus partito che lotta contro le disuguaglianze. È di aiuto indulgere a tale tendenziosa rappresentazione? Non sarebbe più onesto descrivere la contesa come quella tra due diversi modi di intendere un beninteso riformismo (non scambiato per moderatismo), del quale nessuno ha il monopolio?
Vi sono altre due forme di depistaggio. Quella che vede fiorire candidature in nome dei cosiddetti territori. Anche qui domando: che c’entrano con l’esigenza di sciogliere il nodo di una identità politica nazionale? Se vi sono amministratori che aspirano alla guida del Pd e ve ne sono anche troppi – in realtà sarebbe più serio che onorassero il proprio mandato anziché mirare ad altro – declinino le loro generalità sotto il profilo della cultura politica e circa natura e missione del Pd come partito nazionale. Esemplifico: che confronto tra diverse visioni e che svolta possono sortire da una eventuale competizione tra due amministratori che hanno strettamente condiviso entrambi l’avventura renziana come Bonaccini e Nardella? Quest’ultimo, per inciso, fu additato da Renzi, a lui legatissimo, tra i 101 che affossarono Prodi per il Quirinale.
Anche la questione femminile, pur in sé rilevante, non può assurgere a nodo politico-identitario dirimente. In analogia con ciò che si è osservato per la Meloni: chapeau per essersi conquistata il potere. Ma ciò che più ci interessa è la sua politica. Così per il Pd: è sulla politica che, uomini o donne, devono essere giudicati. Anche qui sia lecito un rilievo impertinente. Se, come è vero, nel Pd, il potere, per quanto patologicamente, si è sempre condensato nelle correnti, avremmo dovuto vedere donne battersi per capeggiarne qualcuna. O addirittura partecipare alla competizione per la leadership del partito.
Nei quattordici anni di vita del Pd, a cimentarsi in proprio, di donna se ne è vista una sola: Rosy Bindi. L’unica non affiliata a cordate tutte rigorosamente intestate a capi maschi cui affidare le proprie fortune.