Sono i primi giorni di giugno, l’intervista è quasi terminata. Gli chiedono se pensa di riuscire a scoprire tutta la verità sul disastro della Moby Prince. Lui sospira, ci riflette un attimo: “Tutta la verità sarà difficile. Però diciamo che la trama principale del film la scopriamo. Forse anche i titoli di coda”. Sono le ultime parole di Angelo Chessa, l’uomo che ha passato la vita a tentare di riabilitare la memoria del padre Ugo, il comandante morto sul traghetto, e travolto da decenni di menzogne. Angelo, 56 anni, se ne è andato tre giorni dopo quel colloquio, vittima di una malattia. È stato il volto dei familiari che da 31 anni cercano la verità sulla peggiore strage marittima avvenuta in Italia. Le piste più recenti, cristallizzate da due commissioni parlamentari, portano a una terza nave coinvolta nella collisione fra la Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo (Snam-Eni), dedita a traffici poco puliti ma ben protetti. La testimonianza, quasi un testamento, è contenuta nel documentario Il mistero Moby Prince, del giornalista Salvatore Gulisano, prodotto da Stand by me per Rai Documentari, in onda stasera su Rai2. Un’inchiesta che rimette insieme i pezzi di un grande mistero italiano. Soprattutto, quella della Moby Prince è la storia dell’ostinata ricerca della verità dei familiari delle vittime, contro bugie e depistaggi di Stato.
È il 10 aprile 1991. In uscita dal porto di Livorno la Moby Prince sperona la Agip Abruzzo, ferma all’ancora, e prende fuoco. A bordo della prima nave, ignorata per ore, muoiono in 140, tutti a eccezione del mozzo Alessio Bertrand. I soccorsi salvano solo equipaggio (e carico) della seconda. La ricostruzione ufficiale costruisce una serie di invenzioni: una nebbia fittissima (che alcuni testimoni ritengono fosse un incendio già in atto sulla Agip, prima dell’impatto con la Moby); un comandante esperto, Chessa, ma molto distratto, che non guarda il radar, non vede una nave alta sei piani; un equipaggio che guarda in tv Barcellona-Juventus.
E ancora: a bordo del traghetto sarebbero tutti morti bruciati in mezz’ora. Tutto falso. Non c’era nebbia. Le vittime si sarebbero potute salvare, ma nessuno ci ha provato. Un processo farsa, che non coinvolge alcune figure chiave, assolve tutti. Il presidente del collegio, anni dopo, viene condannato in un’altra vicenda per corruzione in atti giudiziari. Armatori e assicurazioni si mettono d’accordo in segreto per risarcire le vittime e tagliarle fuori dal processo. La compagnia di Vincenzo Onorato (armatore della Moby, intervistato nel documentario per la prima volta), incassa 20 miliardi di lire.
A cercare la verità rimangono le vittime. I fratelli Chessa, rimasti orfani (a bordo c’era anche la madre), ipotecano le case di famiglia e investono mezzo miliardo di lire, per allestire una sorta di quartier generale della contro-inchiesta. Ricostruiscono una verità alternativa: la Moby potrebbe aver deviato la rotta per evitare una terza nave. E ce n’erano tante in rada quella notte. C’erano sette navi militarizzate americane di ritorno dalla Guerra nel Golfo, cariche di armi ed esplosivi, che rispondevano al vicino comando Nato di Camp Darby. Il comandante di una esse, fornendo un nome falso, si allontana dalla zona subito dopo l’incidente.
C’era una nave somala, la 21 Oktober, ufficialmente un peschereccio in riparazione, appartenente a una compagnia che dietro la cooperazione camuffava traffici d’armi e su cui indagava Ilaria Alpi prima di essere ammazzata a Mogadiscio. Tra le varie ipotesi, anche se in parte smentita, affiora anche quella di una bomba. C’è, ancora, l’ipotesi di una nave dedita al bunkeraggio, rifornimento di greggio clandestino. Via radio ne parla Renato Superina, comandante della Agip Abruzzo: “Ci ha investito una bettolina”. Un’imbarcazione piccola, difficile da confondere con un traghetto. Forse tutta la verità non la vedrà il figlio di Chessa. Morto sereno, dice chi lo conosce, per aver ridato dignità al padre Ugo. Forse la vedremo noi, se i partiti terranno fede alla promessa di istituire una terza commissione d’inchiesta.