I documenti stilati dagli organismi internazionali sono solitamente felpati e anodini. Il nuovo rapporto Ocse che giudica come viene contrastata la corruzione internazionale in Italia, invece, è chiaro e diretto, pane al pane e vino al vino: una staffilata alla giustizia italiana che non riesce a perseguire le tangenti pagate all’estero da aziende italiane. Così facendo, il nostro Paese non rispetta la Convenzione Ocse del 1997 che l’Italia ha solennemente firmato, insieme agli altri 43 Stati membri, impegnandosi a condannare i propri cittadini e le persone fisiche e giuridiche che pagano mazzette all’estero.
Conosciamo le risposte sempre ripetute a mezza voce: “Così fan tutti”; “ci sono parti del mondo in cui non fai affari senza tangenti”; un’attività giudiziaria troppo efficace è “autolesionismo” che finisce per danneggiare “i campioni nazionali”. Proprio per incenerire vergognosi luoghi comuni come questi esiste il Working Group on Bribery, il Gruppo di lavoro anticorruzione dell’Ocse: perché non esiste sviluppo economico sano ed equilibrato senza regole uguali per tutti e leggi rigorose per estirpare (o almeno tentare di estirpare) dagli affari internazionali le tangenti usate come indebito “vantaggio competitivo” criminale. I difensori a ogni costo dei “campioni nazionali” sono i discendenti dei corsari e dei banditi del Far West. L’Italia ha invece accettato, aderendo all’Ocse, di sottoporsi, come tutti gli Stati membri, agli esami periodici sull’attuazione della Convenzione.
Questa volta è toccato agli esaminatori tedeschi e statunitensi valutare l’Italia e poi dare il voto. Insufficiente. Gli esaminatori hanno constatato l’incapacità dell’Italia di perseguire il reato di corruzione internazionale e hanno chiesto modifiche legislative e addirittura di rimandare a scuola i giudici, per corsi di formazione sulla Convenzione Ocse: i magistrati d’accusa, infatti, istruiscono i processi (e il rapporto contiene un esplicito plauso alla Procura di Milano e al terzo dipartimento – quello guidato dall’aggiunto Fabio De Pasquale che ha condotto le indagini e i processi Eni – indicato come esempio da preservare addirittura nelle raccomandazioni finali); ma poi i giudici li dissolvono, frammentando i fatti, esaminando “ogni elemento di prova in modo isolato”, rigettando sistematicamente le prove indiziarie, offrendo “spiegazioni alternative non corroborate da prove”, pretendendo soglie di prova impossibili in un processo indiziario.
I riferimenti espliciti sono a tre procedimenti: quello a Finmeccanica per gli elicotteri venduti all’India e quelli a Eni per gli affari in Algeria e per la licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria (anche questo finito con un’assoluzione generale). Sulla vicenda nigeriana, il rapporto cita espressamente alcune delle prove raccolte dalla Procura (e non considerate invece dalla Procura generale, che non ha voluto neppure celebrare l’appello): i messaggi email interni all’azienda dei manager Shell il cui “linguaggio fa pensare alla corruzione”; e gli strani trasferimenti in contanti dei soldi (1,3 miliardi di dollari) pagati da Eni per Opl 245: “Metà del denaro dell’acquisto è stato poi riciclato attraverso molteplici trasferimenti di contanti ai cambiavalute e poi distribuito, anche a un funzionario per l’acquisto di una proprietà da 4,5 milioni di dollari. È stato comunque accertato che la proprietà era un compenso per i servizi legali resi in precedenza dal funzionario quando esercitava la professione di avvocato. Tuttavia, la sentenza non fa riferimento ad alcuna prova documentale (per esempio, fatture) dei servizi resi o del debito dovuto”.
Ora l’Italia dovrà dimostrare di aver capito la lezione e di voler accogliere le raccomandazioni Ocse. Ce lo chiede l’Europa, anzi, il mondo.