Il web si è riempito di nuovo di contenuti pro-ana e pro-mia. Pensavamo di essercene liberati e invece, cacciati dalla porta, sono rientrati dalla finestra. O, più precisamente, da TikTok.
Ma partiamo dall’inizio. Partiamo dalle definizioni. A fine anni Novanta proliferavano blog chiamati appunto pro-ana (pro anoressia) o pro-mia (pro bulimia). Ragazze con problemi alimentari molto seri si incitavano a vicenda a mantenerli, quei problemi, scambiandosi consigli su come mangiare di meno, su come indursi il vomito più agevolmente, sui lassativi. Non entreremo nel dettaglio. Chi ha vissuto quegli anni con una persona con problemi alimentari vicino, sa. E sa anche che l’effetto Werther, l’emulazione insomma, in quei casi è dietro l’angolo. Proprio da questa consapevolezza è scaturito un periodo, durante tutti gli anni Zero, di grande lotta alla presenza di blog pro-ana/mia. Questo ha portato nel 2007 al primo caso di quella che impropriamente è stata definita censura (impropriamente perché sono pur sempre piattaforme private) in Europa: è avvenuto in Spagna, e il blocco di blog pro-ana/mia ha fatto scuola. È diventato la regola, sia per Facebook che per Instagram.
Da menzionare certamente anche la legge francese, che nel 2015 si è arricchita di una norma molto dura per chi “inciti una persona alla ricerca della magrezza eccessiva”: in questi casi in Francia si prevede la reclusione e una multa di 10mila euro.
Quando Michela Marzano provò a proporre qualcosa del genere in Italia fu beffata da editorialisti uomini che parlarono di “legge sulla ciccionefobia”. Ci furono però anche critiche più composte, e soprattutto più puntuali, come quelle di chi fece notare che troppo spesso le autrici dei blog pro-ana/mia erano proprio persone che soffrivano a loro volta di problemi alimentari. La norma in questione – affermarono – avrebbe rischiato di punire le vittime. Al netto di quanto sia interessante constatare l’insufficienza ontologica e anche giuridica delle categorie di vittima e carnefice, che mai quanto in questo caso si confondono, ecco che arriviamo ai giorni nostri.
Oggi, di problemi alimentari soffrono 70 milioni di persone al mondo, di cui quasi 4 milioni solo in Italia. L’anoressia nel nostro Paese è la prima causa di morte tra i 12 e i 25 anni dopo gli incidenti stradali. Il 96% di chi ne soffre è donna. Questa cifra ci fa ragionare su quanto il problema sia culturale e (anche) legato a modelli di bellezza imposti, e quindi su quanto le piattaforme social possano incidere. Quanto, purtroppo, talvolta abbiano il peso di uno ius vitae necisque, diritto di vita o di morte, che nessuna azienda privata dovrebbe poter avere sulla vita di milioni di persone.
Eppure ce l’ha.
Ricapitolando: in principio erano i blog. Poi Facebook, Instagram e Pinterest. La thinspiration è sparita, e ci sentivamo al sicuro. Almeno un po’ di più. E invece è proprio Tik Tok – con metà dei suoi 800 milioni di utenti che ha tra i 16 e i 24 anni – a fregarsene ampiamente di seguire le buone pratiche che, almeno su questo, hanno caratterizzato gli altri social negli ultimi vent’anni.
La cosa più grave di questo scarso o nullo controllo è che, per com’è strutturata l’app, capita che ti saltino davanti agli occhi contenuti di questo tipo semplicemente mentre stai scrollando il feed dei “Per te” (così TikTok chiama i contenuti che secondo lui sono adatti a ognuno in base all’algoritmo).
L’app qualche tempo fa ha provato a salvare la faccia cancellando gli hashtag più ovvi (#thinspiration e #thinspo, per esempio) ma, com’è successo sugli altri social, è bastato modificare di poco il nome dell’hashtag per tenerlo in vita. Non ci vuole neanche particolare impegno per trovarli: è l’app stessa che te li suggerisce. Se, per esempio, inserisci nella barra di ricerca “thin” (magro) uno dei primissimi suggerimenti è #thinsrøp, poi #thinspø, e così via. Che non vorrebbe dire proprio niente, se non fosse che sono letteralmente hashtag pro anoressia.
Da quando il Guardian ha provato a sollevare il problema con un lungo articolo di Kari Paul, l’ottobre dell’anno scorso, l’app ha lasciato la situazione praticamente invariata.
La domanda a questo punto è una: TikTok ha intenzione di prendersi un briciolo di responsabilità per tutti i contenuti pro-ana che ospita sulla piattaforma?
Ricordiamo che durante la pandemia – cioè proprio quando i giovanissimi erano tutti costretti su social come TikTok – i casi di anoressia e bulimia sono aumentati, in Italia, del 56%.
E questo non è in alcun modo un dato che ci possiamo permettere di ignorare.