Pavana (Pistoia)
“La voce è come le gambe per un atleta: devi allenarla, e se smetti di farlo poi devi ricominciare tutto da capo”. Francesco Guccini, il Maestrone, parla circondato dai gatti e da un paese intatto. Canzoni da intorto (BMG), il nuovo album, è uscito a dieci anni di distanza dal precedente. “Un disco di cover, idea che avevo in mente da tempo. Dentro ci ho messo le canzoni che cantavo da ragazzo, quelle a cui ero più legato nei Cinquanta e Sessanta. Secondo mia moglie le usavo per “intortare” le ragazze, da qui il titolo. Sono brani quasi sempre non notissimi e poco commerciali, quando la casa discografica ha saputo i titoli è sbiancata”. Il disco, disponibile solo in supporto fisico (niente streaming e Spotify), è il regalo riuscito e inatteso di un artista eterno.
Hai scelto anche Sei minuti all’alba, capolavoro del primo Jannacci.
Enzo era molto bravo, soprattutto quando scriveva con Dario Fo. Gran talento, ma quando mi telefonava era un incubo: bofonchiava e non capivo nulla. Gli ripetevo “Cosa hai detto, Enzo?”, ma lui andava avanti e io a quel punto facevo finta di capire: “Va bene, Enzo”, “Certo, Enzo”.
De André, Gaber e Guccini, ovvero i più grandi cantautori italiani. Sei d’accordo?
Credo di sì, anche se ci aggiungerei Claudio Lolli. Aveva una capacità di scrittura straordinaria.
È giusto che qualche tua canzone venga studiata nelle scuole?
Qualcuna sì. Mi fa piacere, ma la cosa di cui vado più orgoglioso è far parte di un’antologia Meridiana Mondadori dedicata ai più grandi scrittori italiani di racconti del Novecento. Essendo sotto sotto un fighetto snob, ha dato più gioia al mio ego questo riconoscimento di qualsiasi canzone.
Sei consapevole del tuo talento?
Per niente. Non riascolto mai i miei dischi, non canto mai le mie canzoni quando imbraccio la chitarra e i miei genitori mi hanno insegnato a stare basso: mi hanno cresciuto “masato”. Sempre basso profilo. Questo mi ha reso insicuro e molto timido. Non ho assolutamente autostima. Anche durante i concerti ero terrorizzato, come quando davo gli esami all’università.
Durante i concerti non sembravi timido.
Sul palco mi sono sempre sentito sotto esame e prima di salirci ero tesissimo. Poi, se mi sentivo accettato, verso metà concerto mi liberavo e facevo battute. È tipico dei timidi reagire con esuberanza. Proprio per non sembrare timidi.
Il fiasco di vino sul palco aiutava?
Questa cosa del fiasco mi fa ridere, perché non era un fiasco ma una semplice bottiglia. Bevevo rosé, e pure poco, perché sul palco devi essere lucido. Uno o due bicchieri di rosé. E a tavola bevo quasi sempre Traminer.
Anche De André aveva paura del pubblico.
Lui beveva whisky, e all’inizio neanche poco. Prima dei concerti mangiava solo due “uova all’ostrica”: buttava già il tuorlo con un po’ di limone e via. Poi basta. Io no. Avevo un genovese sciagurato che mi seguiva per il catering. Libagioni infinite di cibo e vino nei camerini. Mangiavamo tantissimo sia prima che dopo i concerti.
Con Fabrizio avevi un buon rapporto?
Tutto sommato sì, anche se non ho mai frequentato per amicizia i colleghi. A fine Settanta, dopo il suo tour con la Pfm, pensammo di fare un tour insieme. Eravamo convinti entrambi, ma i nostri manager non vollero. Fabrizio era molto bravo e molto diverso, anche come origini: lui veniva da una famiglia aristocratica, io proletaria. E questo diverso apprendistato, nella nostra musica, si nota parecchio.
E Gaber?
Molto bravo. Lo andavo sempre a vedere a teatro, quando veniva a Bologna, e poi facevamo tardi alla Trattoria Da Vito. Facevamo un gioco un po’ scemo che avevo imparato a Milano. Ognuno aveva il nome della stazione di una città. Uno di noi batteva gambe e mani e diceva: “Parte il treno per Milano!”. E chi era “Milano” doveva scattare in piedi e gridare subito un’altra città: “Parte il treno per Bologna!”. Così per ore. Gioco idiota, lo so, ma se lo facevi alle tre di notte pieno di vino ti divertivi.
Gaber però era quasi astemio.
Vero, ma da Vito andava di moda la vodka, e una volta ricordo distintamente che Giorgio fece fuori da solo mezza bottiglia. Quando voleva, anche lui ci dava dentro.
Qual è la canzone di cui vai più fiero?
Quelle che il pubblico non direbbe. Una volta Vasco è venuto in trattoria e mi ha detto che, secondo lui, L’avvelenata è straordinaria. Okay, mi fa piacere, ma secondo me L’avvelenata è un po’ una mezza canzone. La sopravvalutano. Ne ho fatte a decine di superiori. A me, per dire, piacciono molto di più brani meno fortunati come Amerigo e Odysseus.
È un classico dei cantautori. Fossati non ama il troppo successo de La mia banda suona il rock, Gaber non amava il troppo successo de La libertà, De André lo stesso con La canzone di Marinella e Gaetano idem con Gianna.
Evidentemente i cantautori, e in generale gli artisti, non hanno gli stessi gusti e la stessa sensibilità del loro pubblico. Ci sta.
È vero che nei Settanta sfidavi Benigni?
Erano duelli di poesia improvvisata. A volte, sadicamente, gli lasciavo delle rime impossibili: “taxi/Craxi”, “mirra/birra”. Lui mi mandava affanculo, poi però se ne usciva con trovate geniali: “La moglie di Pirro doveva chiamarsi Pirraaaa”. Bravissimo. Altri due dotati erano Carlo Monni e David Riondino. Anche Umberto Eco faceva parte di quelle sfide, ma a dirla tutta non era un granché.
Benigni lo senti ancora?
No. Eravamo molto amici all’inizio della sua carriera. Adoravo il suo primo monologo, Cioni Mario di Gaspare fu Giulia. A fine Settanta andammo a trovarlo a Vergaio con gli amici del Premio Tenco e ce lo fece all’impronta: non sbagliò una virgola. Spesso c’era anche Paolo Conte. Poi li ho persi di vista. Uno che sento regolarmente è Ligabue. Ci vogliamo bene.
Anche Zucchero ti adora. Letteralmente.
(sorride) Ed io adoro lui, solo che a volte esagera. L’altro giorno è passato e abbracciandomi mi ha stretto così tanto che mi ha fatto venire i lividi. Zucchero è fumantino e, come tutti quelli che hanno venduto un milione di copie a botta, ha il terrore di perdere il successo. Io, che mi sono fermato “soltanto” a 300mila copie, mi sono salvato. Però una cosa ce l’abbiamo in comune.
Quale?
Il fastidio per chi, come dice Zucchero, “lecca la tazza del cesso per avere successo”. Io, forse con più stile, preferisco dire: “Non mi sono mai infilato una piuma di struzzo nel culo per cantare”. Questi artisti finti, questi “trapper”, gente che si fa chiamare Ernia… ma che roba è?
Diranno che sei anacronistico e non alla moda.
Me lo dicono da sempre, e menomale. Non vado quasi mai in tivù, non so guidare, non ho la patente e non ho neanche il telefonino. Quando in conferenza stampa mi hanno fatto notare che il nuovo disco non era disponibile in streaming, ho risposto che neanche so cosa sia lo streaming.
Da ragazzo volevi fare il giornalista, e nel ’60 intervistasti Modugno.
(Abbassa lo sguardo) Me ne vergogno non poco. Fui molto snob e saccente, volli fare il fenomeno. Avevo 20 anni ed ero stupido come sanno essere i ventenni. Modugno si incazzò molto e si lamentò col direttore. Un’altra volta feci un’inchiesta sull’aumento di malattie veneree dopo la chiusura delle case di tolleranza. Il direttore d’ospedale mi fece vedere i dati che lo confermavano, dicendomi però di non pubblicarli. Poi uscì dalla stanza e li lasciò sul tavolo. Li copiai e pubblicai. Il giorno dopo successe il finimondo e il direttore mi cacciò. Presi le mie cose, mi avvicinai alla porta e il direttore si arrabbiò di nuovo: “Ma dove vai Guccini, torna qui!”. Praticamente mi licenziarono per cinque minuti.
Prima di fare il cantante, hai anche scritto i testi per le pubblicità dei Carosello.
E guadagnavo pure bene. Una volta feci uno spot per Ciccio Ingrassia e Franco Franchi. Tra loro si odiavano, letteralmente. Giocavano a carte, ognuno in coppia con un suo dipendente, e quando perdevano davano la colpa al “sottoposto”. Una dinamica un po’ brutale da padrone e schiavo.
Per te, le carte, sono sacre.
Sono un ottimo giocatore di scopa, briscola, tressette e scopone scientifico. Anche con De Andrè una volta ci sfidammo a Bologna, dopo un suo concerto con la Pfm. Quello che perdeva doveva dare mille lire all’altro. Finì uno a uno. Da qualche parte devo avere ancora delle mille lire firmate da Fabrizio, come lui le aveva firmate da me. Giocherei anche a Pavana, ma non arriviamo mai a quattro: i miei amici sono quasi tutti morti, e poi Pavana è diventata un po’ borghese. Prima si lanciavano delle Madonne incredibili durante le partite, ora son tutti casti. Prima si giocava per un fiasco di vino, ultimamente per un caffè o le caramelle. Ti rendi conto? Le caramelle a Pavana: roba da matti.
Anche Lucio Dalla giocava con te a carte?
No. Anche Lucio frequentava la Trattoria da Vito a Bologna, ma lui di solito arrivava solo per accertarsi che il suo manager Renzo Cremonini, che noi chiamavamo “Jabba” per la somiglianza con Jabba The Hatt, non mangiasse di nascosto. Cosa che peraltro faceva sempre, al buio, convinto che il cibo trangugiato nell’oscurità non lo facesse ingrassare. La cosa più bella di Lucio resta Com’è profondo il mare. Quello è il suo apice. Abbiamo anche scritto insieme un brano, Emilia, ma c’erano degli aspetti di Lucio che non riuscivo a comprendere fino in fondo.
Chi hai votato alle ultime elezioni?
(Allarga le braccia) Io voto Pd.
Non dirlo così, non è poi così grave.
(ride) Mi pare che il Pd, oggi, sia un po’ il cane che tutti prendono a calci. Anche 5 Stelle e Calenda sembrano colpire più il Pd che la Meloni. Di sicuro il Pd, da solo, non va da nessuna parte. Guardo più ai 5 Stelle che a Calenda, ma penso soprattutto alla base e agli elettori dei 5 Stelle, che ritengo perlopiù di sinistra. I vertici mi convincono di meno.
Ora speri in Bonaccini?
(pausa) L’ho incrociato di sfuggita qualche volta. Non so che dirti. Mi piace Elly Schlein, la sento più vicina ed è brava, molto brava, ma forse per certi aspetti è troppo dura. Il mio preferito è Bersani: mai visto dal vivo, ma ci ho parlato al telefono. Brava persona. E le sue metafore sono fantastiche.
La Meloni ti fa paura?
Paura no, ma tira un’aria molto reazionaria. Non c’è niente da fare: il popolo italiano è un popolo conservatore, e oggi molti ex elettori di sinistra la pensano come la Meloni anche su lavoro e migranti. Mi inquieta quella fiamma nel simbolo di Fratelli d’Italia: è la fiamma del Msi e quindi la fiamma di Giorgio Almirante, uno che era redattore de La difesa della razza. Ci rendiamo conto della stortura totale dell’abbraccio di Ignazio La Russa a Liliana Segre?
Peggio Berlusconi o Meloni?
(sospiro) Alla fine, secondo me, è “meglio” la Meloni. Se non altro, non ha quei quintali di conflitti di interesse che aveva ed ha Berlusconi. Ho temuto seriamente che lo facessero Capo dello Stato: questo Paese, purtroppo, è capace di tutto.
Passi per anarchico e comunista, ma Edmondo Berselli diceva che in fondo sei moderato e socialdemocratico.
Definirsi oggi anarchici non ha senso, è cambiato tutto e anche una canzone come Contessa era già falsa e antistorica nei Sessanta. Io sono “Giustizia e Libertà”, sono dalla parte dei fratelli Rosselli. Mai stato comunista e mai votato comunista.
Neanche con Berlinguer?
Neanche. Lo stimavo molto, ma negli Ottanta ho votato il Psi. Attenzione: non il Psi di Craxi, ma di Pertini. Un personaggio meraviglioso, che aveva solo un grande difetto: era un pessimo giocatore a carte. Anche la famosa sfida sull’aereo della Nazionale ’82 la perse lui per un erroraccio che Zoff, Causio e Bearzot non ebbero il coraggio di fargli notare. Me lo ha confermato sorridendo Zoff, che conosco e che – bontà sua – ama le mie canzoni.
“Radici”: il disco della svolta. Era 50 anni fa.
Fino a quel momento non avevo venduto quasi nulla. Anche nel ’67, quando la Caselli mi fece debuttare in Rai in un programma condotto da lei e da Gaber (in quella stessa puntata esordì in tivù anche Battiato, ndr), non cambiò nulla. Poi, con Radici, capii che forse avrei potuto vivere come cantante.
Oggi chi è Guccini?
Sono un “vecchio incespicone”, come diceva mia nonna a mio nonno. Ho 82 anni. Non tiro più tardi la notte, non faccio più concerti, non faccio più le camminate di un tempo. Ma il disco mi piace, posso bere rum tre volte a settimana (di più mia moglie Raffaella non vuole) e il nuovo libro che sto scrivendo con Loriano Macchiavelli sta venendo proprio bene. Quindi non mi lamento.
Perché Pavana è così importante?
Perché ci sono cresciuto. Ricordo ogni cosa. Ricordo mio padre, che era perito elettro-meccanico ma che amava Einaudi, Montanelli e studiava la storia leggendo van Loon. Ricordo l’arrivo degli americani. Ricordo ogni amico e parente. E ricordo quando i nazisti fecero saltare la centrale elettrica nel ’44. Le lastre del tetto erano di Eternit e finirono sul fiume. Noi, bambini, scoprimmo che se lo mettevi nel fuoco, l’Eternit si gonfiava e saltava per aria. E noi giù a dargli fuoco! Eravamo inconsapevolmente pazzi. Qui ho le mie radici. Ricordo proprio tutto.