“Mai più sole contro la violenza sessuale”: in un prezioso lavoro di ricerca e di ricostruzione, Nadia Maria Filippini, socia fondatrice della SIS, già docente di Storia delle donne presso l’Università di Venezia Ca’ Foscari, ci restituisce una storia tralasciata – in parte volutamente – del femminismo italiano. Il libro, edito da Viella, ricostruisce una vicenda che ha segnato uno snodo cruciale nella lotta contro la violenza sulle donne intrapresa dal femminismo negli anni Settanta. Fu la prima mobilitazione in un processo per stupro, a Verona nel 1976, che vide il movimento, d’intesa con la parte civile, chiedere il dibattimento a porte aperte, trasformando il processo in un’azione politica contro la parzialità delle istituzioni giudiziarie e la vittimizzazione secondaria, contro la cultura solidale con lo stupro, fino a chiedere la ricusazione dei giudici per maschilismo, su iniziativa di Tina Lagostena Bassi, al suo esordio in questo ruolo di “avvocata delle donne”. Pubblichiamo alcuni stralci dell’introduzione.
Verona, 1976: una giovane donna vittima di stupro denuncia i suoi aggressori, scelta al tempo molto rara. Non solo: si unisce al movimento femminista, decidendo di fare del suo processo un processo politico, un’occasione di denuncia contro la violenza sulle donne in tutte le sue sfaccettature, a partire da quella perpetrata nelle aule dei tribunali. È la prima volta che in Italia avviene un fatto del genere. Nel panorama di lotta contro la violenza sulle donne che il femminismo ha portato avanti negli anni Settanta, questa iniziativa del movimento delle donne di Verona, al centro del libro, segna un passaggio cruciale, uno snodo che evidenzia da un lato i profondi cambiamenti che avevano investito la soggettività femminile, dall’altro l’abissale distanza che separava questa nuova realtà da istituzioni, codici, norme obsolete, con l’inevitabile apertura di scontri e conflitti profondi. Non è questo l’unico “primato” della vicenda […]. Per la prima volta un coordinamento di gruppi femministi chiede alla Corte di esser presente al processo non solo per solidarietà nei confronti della parte civile, ma sulla base di una comune identità di genere, denunciando lo stupro quale espressione di un potere maschile secolare e di una gerarchia di genere profondamente radicata. Su questo apre un duro braccio di ferro con i giudici, con una mobilitazione che coinvolge migliaia di donne in città e in regione. Ad esser messa sotto accusa è la stessa istituzione giudiziaria, di cui viene svelata la falsa neutralità, la connotazione maschile di codici e procedure, la cultura solidale con lo stupro imperante nelle aule dei tribunali. […] Ma è anche vero che, a seguito di questa grande mobilitazione, una sentenza altrettanto inedita riconosce per la prima volta il movimento femminista come soggetto collettivo, accogliendo la richiesta avanzata dalle avvocate di parte civile di un risarcimento a suo favore, destinato a sostenerne iniziative di contrasto alla violenza sessuale.
Tutto questo avviene in uno scenario reso pubblico, oltre che dalle manifestazioni di piazza, dalla presenza massiccia dei media: il processo è seguito da tutti i giornali nazionali (e non solo), da riviste, emittenti radiofoniche e perfino dalla televisione che riprende scene dell’udienza, realizzando un lungo documentario sul processo, mandato in onda da Rai 1 in prima serata il 26 ottobre 1976. […] A questo proposito va rilevato un significativo cambiamento di strategia da parte del movimento femminista nei confronti dei mass media, che non vengono ignorati o allontanati (come spesso succedeva in precedenza), ma con i quali si apre un confronto, per quanto denso di tensioni e problemi. Il movimento insomma cerca di “usare” i mass media per trasmettere e diffondere i suoi contenuti. In questa prospettiva è dirompente il protagonismo della giovane ragazza che rifiuta di interpretare il ruolo passivo di “oggetto” della violenza sessuale per diventare “soggetto” di un’accusa che trascende i suoi stupratori, spiegando quanto la sua vicenda “personale” sia in realtà “politica”. […]
L’iniziativa veronese diventa, negli anni successivi, modello di mobilitazione in tutta Italia e anche all’estero: in molte città i processi per stupro vengono accompagnati da analoghe manifestazioni femministe che, seppur in forme diverse e specifiche, ripropongono l’obiettivo di denuncia della vittimizzazione secondaria, di messa sotto accusa delle istituzioni giudiziarie. […] Si coniuga a questo l’avvio del dibattito sulla riforma degli articoli del Codice penale che porterà, dopo un iter alquanto travagliato, al varo della legge 66/1996 (Norme contro la violenza sessuale), che trasforma lo stupro da delitto contro la morale e il buoncostume a delitto contro la persona. Si pone, a questo punto un interrogativo storiografico tutt’altro che irrilevante: come mai una vicenda così dirompente, che ha suscitato tanto clamore, percepita e interpretata a suo tempo come uno snodo cruciale nella storia delle donne, è poi scomparsa dalla memoria collettiva e non ha ricevuto l’attenzione storica che meritava? […]
La risposta va rintracciata, a mio avviso, in una serie di fattori che hanno a che fare da una parte con lo stato delle ricerche, dall’altra con una gerarchia sia di contesti che di tematiche. La storia del femminismo italiano presenta ancora territori largamente insondati: malgrado gli importanti lavori di ricerca condotti anche recentemente, molto ancora resta da indagare. Inoltre la direzione delle ricerche storiche e sociali risente ancora di una scarsa articolazione geografica che ha privilegiato alcuni grandi centri (Milano, Roma), a scapito di realtà periferiche, come annota Bellè. […]
Si aggiunga a questo il fatto che il tema stesso della violenza sessuale, dopo l’iniziale fioritura di interesse negli anni Settanta, è rimasto piuttosto a margine delle ricerche storiche in Italia, rispetto ad altri Paesi. […] Solo in tempi più recenti esso è stato ri-assunto come oggetto specifico di ricerca. […] Su questa emarginazione tematica ritengo abbiano pesato anche resistenze e orientamenti di carattere politico: il timore, serpeggiante in vari gruppi femministi, di ricadere in una lettura vittimistica della storia delle donne o di distogliere l’attenzione dal piano degli aspetti culturali e simbolici, considerati di maggior rilievo, come osserva Ilaria Boiano. Eppure è stato proprio attraverso le ricerche sulla violenza contro le donne che si sono aperte in campo culturale prospettive di analisi tra le più interessanti per quanto attiene al significato simbolico del corpo femminile, non solo per la famiglia e la comunità, ma per l’intera nazione. […] Inoltre la storia della violenza sessuale, se la si guarda dall’altra parte del cannocchiale, quella dell’agency femminile, mette in luce un’altra realtà: una fitta rete di strategie, iniziative, alleanze, forme di lotta che le donne hanno messo a punto nel corso dei secoli per farvi fronte, delineando un ruolo tutt’altro che passivo e un protagonismo rilevante, pur nella cornice consolidata del patriarcato. Si tratta insomma di una storia di forza e non di debolezza, come dimostra anche la vicenda al centro di questo libro.