Questo libro, prim’ancora che un racconto appassionato di Giorgio Gaber, è un atto d’amore dedicato a uno degli artisti che più adoro. Ho conosciuto Giorgio, l’ho visto più volte a teatro, abbiamo cenato insieme un sacco di volte. L’ho intervistato, l’ho ascoltato, gli voglio bene. Se la malattia gli avesse dato tregua, sarebbe stato il mio correlatore di tesi, che era dedicata ai cantautori della prima generazione – si intitolava Amici fragili – e dunque parlava anzitutto di lui e Fabrizio De André.
Racconto Giorgio a teatro da ormai dodici anni. È una delle cose a cui più tengo nella mia vita. Lo spettacolo, voluto dalla Fondazione Gaber e dunque anzitutto da Dolores Redaelli e Paolo Dal Bon, doveva essere una data unica e speciale a Voghera. Febbraio 2011. Da allora l’ho messo in scena più di duecento volte in tutta Italia, e continuerò a farlo finché sarà possibile: guai a dimenticare Gaber.
Questo libro, il secondo (e spero non l’ultimo) per Paper First dopo quello su Franco Battiato che dedico ai grandi della musica, è nella sua prima parte il testo – esteso e arricchito – del mio spettacolo omonimo. Nella seconda parte, che ho chiamato Bis perché tutto in Gaber va ricondotto al teatro, troverete una corposa antologia di pensieri e parole – “Dicono di Giorgio” – che intellettuali, artisti e appassionati famosi hanno scritto appositamente per questo libro. Ognuno ha raccontato il suo Gaber, e ognuno lo ha fatto meravigliosamente.
Ho poi voluto inserire qualche aneddoto personale, per farvi arrivare la bellezza non solo artistica ma anche umana di Giorgio. Mi sono poi permesso di dare anche qualche consiglio su come approcciarsi al corpus artistico di Gaber e Luporini (mai dimenticarsi di Sandro: i due erano una cosa sola). Gaber ha sempre rifuggito la dimensione canonica discografica, dal 1970 ha frequentato pochissimo tv e studi discografici e – dunque – non è facilissimo avvicinarsi a lui. Non si sa da dove cominciare, e magari questo libro vi aiuterà.
Detesto le etichette: è una delle tante cose che ho cercato di imparare da Giorgio. Le etichette sono un tentativo quasi sempre pigro e idiota di incasellare le persone. Più una persona è originale e sfuggente, più si cerca di incasellarla (e dunque annacquarla). Lo hanno fatto con Gaber, lo hanno fatto con Pasolini, lo fanno con tutti. L’uomo banale cerca sempre di banalizzare anche chi ha attorno, sperando che in quel modo non ci si accorga della sua pochezza Se però qualcuno deve per forza etichettarmi, può serenamente usare la parola “gaberiano”: lo sono, fino al midollo.
Una volta Carmelo Bene, parlando di Van Basten, disse: “Il lutto in me per il suo precoce ritiro non si estingue ancora e mai si estinguerà”. Per me, e per tutti i gaberiani veri e devoti, è esattamente lo stesso: il lutto per la sua precoce scomparsa non si è mai estinto, né mai si estinguerà. A ormai vent’anni dalla sua morte, Gaber mi manca ogni giorno. Mi manca la sua umanità, il suo talento. La sua fisicità, la sua ironia. La sua lucida ferocia, il suo inaudito coraggio.
Giorgio è stato uno dei più grandi pensatori italiani del Novecento. Era così avanti che si metteva quasi sempre fuori gioco da solo. Era così bravo che ti metteva a nudo ogni volta, passando dal riso al pianto e al cazzotto con naturalezza infinita. I suoi spettacoli erano epifanie salvifiche, il suo naso era una burla ulteriore al destino, la sua mimica era un prodigio continuo.
Mi manca, gli voglio bene (lo so, l’ho già detto) e faccio di tutto per sentirlo vicino. Ascoltandolo. Raccontandolo a teatro. Restituendovelo – anche solo un po’ – con questo piccolo libro.
Buona lettura a tutti voi. E viva il signor G, ora e sempre.