Finché in Italia la destra s’impersonava in Silvio Berlusconi era chiaro perché quella parte politica non potesse diventare sinonimo di “legge, ordine e libero mercato” come di solito accade nel resto del mondo. Berlusconi sguazzava nel duopolio televisivo, soffriva di un enorme conflitto d’interessi, aveva da sempre un rapporto complicato (per usare un eufemismo) sia col fisco che con il codice penale. Oggi, però, Berlusconi conta politicamente poco. I suoi parlamentari, è vero, sono indispensabili per la tenuta della maggioranza, ma l’unica leader è Giorgia Meloni. Per questo risulta difficile comprendere perché in materia di evasione e giustizia la presidente del Consiglio stia facendo di tutto per apparire come una replica al femminile del Cavaliere.
Nelle 36 pagine del programma elettorale di Fratelli d’Italia è presente solo una piccola parte dei provvedimenti e delle iniziative al centro delle polemiche di questi giorni. A pagina 8, sotto il titolo “fisco più equo”, si parla per esempio di innalzamento del limite del contante, ma non della possibilità data ai commercianti di dire di no alle carte di credito sotto i 60 euro. A pagina 33, dopo la voce “Una giustizia giusta e celere”, si parla di riforma, di separazione delle carriere, di Csm a sorteggio, di costruzione di nuove carceri e di certezza della pena: ma non si fa cenno a interventi sulle intercettazioni né tantomeno a norme che evitino la prigione a colletti bianchi condannati per tangenti. Da dove saltano fuori allora idee come quelle sulle limitazioni ai Pos (gradite secondo i sondaggi solo a un terzo degli italiani)? O i voti a emendamenti per evitare che i detenuti per corruzione scontino interamente in carcere la loro pena?
Molti osservatori sostengono che Meloni stia pagando i suoi debiti elettorali con una serie di categorie di riferimento. Compresi quelli contratti con un personale politico raccogliticcio e spesso incline alla devianza. Può essere. Fatti chiari la pensa però diversamente. Dietro queste scelte noi vediamo soprattutto una mancanza di coraggio. Perché essere di destra in tutto il mondo significa tagliare le tasse, anche a scapito dello Stato sociale, e non come da noi dare a molti la possibilità di evaderle. Essere di destra, in Inghilterra o Stati Uniti, vuol dire pretendere il pugno duro contro i reati chiunque li commetta, e non solo contro quelli commessi dai più poveri. Da noi, invece, le cose vanno diversamente. È come se i sedicenti conservatori prendessero atto che governare gli italiani, come diceva Mussolini, non è difficile, ma inutile. Si dà per scontato che senza una certa quantità di nero la nostra economia non possa funzionare. Che una dose di disonestà è insita in tutti i cittadini. Per questo, guardando alle decine di miliardi di euro di appalti previsti per il Pnrr, è solo importante che i soldi vengano spesi anche in presenza di furti e ruberie, piuttosto che rischiare rallentamenti nei lavori a causa di indagini.
Così, a noi viene in mente Giuseppe Prezzolini, un grande intellettuale di destra, che per primo denunciò l’Italia dei furbi e dei fessi. Era fesso, spiegava, chi pagava il biglietto in treno, non entrava gratis a teatro e dichiarava tutte le tasse. I fessi intelligenti e colti, aggiungeva, avevano sempre voluto mandar via i furbi. Ma non c’erano mai riusciti perché erano fessi e perché gli altri fessi, stupidi e incolti, non li capivano. Prezzolini aveva ragione allora e ha ragione pure adesso. Perché i fessi e i furbi non sono di destra o di sinistra. Sono italiani. E Meloni lo sa bene.