Pubblichiamo un estratto dal saggio della linguista Vera Gheno contenuto nel volume “Altri orizzonti. Camminare, conoscere, scoprire” in uscita nella serie Dialoghi di Pistoia per Utet il 19 aprile. Un’antologia transdisciplinare, con contributi anche di Marco Aime, Duccio Demetrio, Adriano Favole, Marco Vannini e Alessandro Vanoli, per approfondire il tema del cammino e del viaggio come strumenti di conoscenza di noi stessi e del mondo che ci circonda.
Perché interrogarsi sul senso e sul peso delle parole? Davvero serve a qualcosa? O è forse una perdita di tempo, un modo per sviare l’attenzione da problemi ben più importanti? Io penso di no: penso che ogni persona dovrebbe riflettere su come si esprime, ma anche su come si esprimono le persone attorno a essa. Questo perché se, da una parte, siamo responsabili delle nostre parole, dall’altra abbiamo anche il potere di giudicare e criticare quelle degli individui che ci circondano, tentando magari di innescare dei circoli virtuosi in cui lingua, realtà e società risuonino reciprocamente e si aiutino a vicenda nel cammino verso una società più equa.
Il nostro presente sta diventando progressivamente più complesso: la globalizzazione da una parte e internet dall’altra ne hanno allargato gli orizzonti, e al tempo stesso hanno fatto sì che un evento prima eccezionale e saltuario nelle nostre vite, l’incontro con le diversità, diventasse esperienza quotidiana e diffusa. Ciò rappresenta una sfida, per noi esseri umani, perché biologicamente non siamo programmati per accogliere il diverso: l’animale che ci portiamo dentro, tanto per citare Franco Battiato, teme istintivamente chi non fa parte della sua “tribù”, chi riconosce come altro da sé, identificandolo quindi come una minaccia. E si sa, quando l’animale si sente in pericolo, tende a reagire con aggressività: così l’essere umano si mette sulla difensiva, e a quel punto è difficile riuscire a far passare pensieri e parole di buonsenso.
Tuttavia, anche se il nostro istinto ci porterebbe verso il rifiuto del diverso, tale reazione può venire superata grazie alla riflessione, alla conoscenza. Rallentare e approfondire il pensiero, aprirsi al sapere, ci ricorda il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani, ci permette di domare, poi superare l’istinto xenofobo, e guardare alla diversità in maniera nuova, con curiosità invece che con timore, come a una risorsa invece che a uno svantaggio. Bisogna solo volerlo, e accettare il trauma che deriva da ogni cambiamento, anche qui andando contro la nostra natura, che tende a essere stanziale e misoneista, cioè spaventata da ogni novità, e di conseguenza da ogni cambiamento.
Storicamente, la nostra società è normocentrica, ossia tende ad assegnare un valore alle persone in base a parametri di vicinanza o lontananza da una presunta normalità. Solo per citare alcuni esempi, l’uomo è la norma, la donna è “l’altra metà del cielo”; anche questo modo di dire è eredità di una società costruita attorno all’uomo e a misura d’uomo, nella quale l’androcentrismo si incontra ovunque: nell’architettura, nella medicina, nell’urbanistica, nei software. L’eterosessualità è normale, l’omosessualità una devianza, tanto che fino a pochi anni fa si usava tranquillamente il termine invertito in riferimento a un gay; avere l’identità di genere che coincide con il sesso biologico assegnato alla nascita, cioè essere cisgender, è normale, essere transgender no; essere bianchi è normale, essere bipoc (ossia black, indigenous, people of color ossia neri, indigeni o persone di colore, in inglese) è una diversità; le disabilità sono una diversità, come pure le neurodivergenze. In una società in cui si presume che alcuni siano normali e altri no, accade che i “diversi” abbiano degli svantaggi sociali più o meno evidenti. Come rileva la scrittrice e attivista tedesca Kübra Gümüşay, la prima differenza sta nella presunta necessità di avere o meno un’etichetta: i normali non hanno bisogno di alcuna definizione particolare perché sono, per l’appunto, la norma; è lo scarto che va definito, etichettato e rinchiuso nelle teche di un museo che i normali possano poi visitare.
In un mondo ideale, la condizione di una persona non dovrebbe essere definita da sue caratteristiche intrinseche; invece spesso è così. Non è dunque un caso se la lingua interpreta tutti questi distinguo, testimoniandoci di un impressionante lessico della discriminazione, che difficilmente cogliamo nella sua interezza e che non è nemmeno ancora del tutto accolto nei dizionari: dall’ovvio sessismo, “tendenza per cui, nella vita sociale, la valutazione delle capacità intrinseche delle persone viene fatta in base al sesso, discriminando specialmente quello femminile, rispetto a quello maschile” al razzismo, “ideologia che, in base a un’arbitraria gerarchia tra le popolazioni umane, attribuisce superiori qualità biologiche e culturali a una razza, affermando le necessità di conservarla pura e legittimando discriminazioni e persecuzioni nei confronti delle altre razze considerate inferiori”, senza dimenticare le sue varianti più specifiche, come la sinofobia, paura o avversione per le persone di etnia cinese, che si è fatta particolarmente sentire soprattutto nei prodromi della pandemia di Covid-19; dall’islamofobia, “atteggiamento di forte avversione, di ostilità verso l’islam e tutto ciò che è islamico” all’ageismo, che lo Zingarelli 2022 descrive come “discriminazione o svalutazione di una persona perché di età avanzata”, ma che in realtà può allargarsi a comprendere anche la discriminazione nei confronti dei giovani, i famosi “bamboccioni”, ai quali viene de facto reso impossibile l’ingresso nell’età adulta; dall’abilismo, “discriminazione, pregiudizio o marginalizzazione nei confronti delle persone disabili”, anche nella variante speculare e solo apparentemente meno pericolosa dell’inspiration porn, cioè il guardare alle disabilità come fonte di ispirazione, alla grassofobia o gordofobia, che è lo stigma sociale dell’obesità, vista per esempio come mancanza di forza di volontà, senza tralasciare il panorama delle discriminazioni legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale: transfobia “avversione per la transessualità e i transessuali”, dice il dizionario, ma forse si potrebbe allargare a “avversione per le persone transgender”, usando la definizione-ombrello che include tutte le altre persone non-cisgender (non-binarie, genderqueer, genderfluid, agender, intersex eccetera), omo- lesbo- e bifobia, discriminazione nei confronti di persone omosessuali, lesbiche e bisessuali. Se la lingua è una cartina di tornasole del “sentire” di una società, essa appare di certo percorsa da molti spasmi d’odio, rivolti a ogni persona “non conforme”.