Autonomie regionali e ddl Calderoli: la secessione dei ricchi è pure peggio del previsto

Il testo della legge quadro che disciplina le singole intese tra Stato e territori: regali al Nord, trattative dirette, Parlamento al palo

Come annunciato dall’autore, il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata è stato depositato a Palazzo Chigi: ora il ministro degli Affari regionali inizierà a fare pressioni per portarlo in Consiglio dei ministri. D’altronde Luca Zaia, che è il co-autore di questa legge, aveva chiarito la scorsa settimana che “senza autonomia” la Lega nazionale “non ha più ragione […]

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Come annunciato dall’autore, il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata è stato depositato a Palazzo Chigi: ora il ministro degli Affari regionali inizierà a fare pressioni per portarlo in Consiglio dei ministri. D’altronde Luca Zaia, che è il co-autore di questa legge, aveva chiarito la scorsa settimana che “senza autonomia” la Lega nazionale “non ha più ragione di esistere”: e così, per evitare che la Lega dei ministeri fosse bombardata da quella dei territori, la legge quadro che farà da cornice alle singole intese Stato-Regioni si è materializzata. Il problema è che il ddl – che Il Fatto ha potuto visionare – è quasi peggio delle previsioni: intese pattizie, “eterne” e di difficile correzione, Parlamento trattato da passacarte, un Fondo perequativo senza un euro in più per le aree svantaggiate. Per non chiamarla “secessione dei ricchi” bisogna fare una certa fatica.

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Intanto la procedura, che definiremo “o comunque una volta decorso il termine di 30 giorni” perché si tratta di un iter di corsa, alla bersagliera. Il prequel è in manovra. Una commissione governativa definirà entro 12 mesi i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che la Costituzione come riformata nel 2001 prevede siano rispettati su tutto il territorio nazionale: una volta definiti vengono emanati via Dpcm e via Dpcm si stabilisce anche quali funzioni non prevedono i Lep, il Parlamento neanche ci mette bocca. Intanto, Meloni permettendo, la legge quadro va alle Camere, che devono approvarla: se lo fanno in questa modalità sarà l’ultima volta che parlano. Dopo, infatti, le singole intese sulle 23 materie citate dal Titolo V, robetta tipo la scuola, vengono contrattate tra governo e giunte regionali, che possono o anche no tener conto del parere di Conferenza Unificata e Commissione parlamentare per le questioni regionali. E il Parlamento? Approva “ai sensi dell’art. 116 terzo comma della Costituzione”. Cioè, nelle intenzioni di Calderoli e Zaia, dice sì o no a maggioranza qualificata senza poter fare emendamenti.

Poi c’è il capolavoro. Se ci sono in ballo i Lep, si legge, il trasferimento di funzioni, fondi e personale può essere fatto solo dopo la loro definizione, per il resto si può procedere appena approvata la legge quadro. La definizione, però, non è la loro attuazione e nemmeno il loro finanziamento, ma Calderoli ha fretta: e infatti “fino alla determinazione dei costi e fabbisogni standard” si usa la spesa storica (pudicamente definita “fissa e ricorrente”), che com’è noto favorisce il Nord. Il punto è spostare subito personale e soldi, cioè stabilire lungo il 2023 quanti schei potrà tenersi Zaia per lasciare tranquillo Salvini nella sua seconda prova da ministro. Ci pensa il Tesoro a deciderlo? Macché: una commissione paritetica Stato-Regione deciderà quanta compartecipazione al gettito o riserva di aliquota toccherà al Doge e ai suoi simili, come si fa nei trattati fiscali con gli Stati stranieri…

Queste intese, si dirà, comunque prima o poi scadono. In realtà possono avere una durata, dice il ddl Calderoli, quindi anche non averla e nell’intesa si deve stabilire i casi in cui le parti possano chiederne la cessazione: anche se c’è una scadenza, però, per evitare il rinnovo automatico serve “l’iniziativa congiunta” di Stato e Regione. Le verifiche sul funzionamento del nuovo sistema poi sono una barzelletta: Palazzo Chigi può “disporre verifiche su specifici profili” e poi basta perché non ha il potere di correggere alcunché. Almeno sui soldi, dirà il lettore, ci saranno controlli: certo, li fa la commissione paritetica Stato-Regione.

Infine ci sarebbe il problema del “fondo perequativo senza vincoli di destinazione” previsto dalla Costituzione per i territori più poveri. Ecco, la legge Calderoli non lo prevede: dice che bisogna fare un fondo unico coi soldi che lo Stato già oggi stanzia per le Regioni in varie forme, dunque senza un euro in più, e peraltro “salvaguardando gli specifici vincoli di destinazione” (il che sarebbe incostituzionale). Infine parla di “procedure” per un uso “più razionale, efficace ed efficiente delle risorse” (tipico linguaggio da tagli di spesa). Questo è il progetto che serve alla Lega per tenere insieme le sue due anime e questo progetto può passare solo se il Parlamento deciderà di fare il passacarte e non il legislatore.