Riporto testualmente, così come me la sono ritrovata trascritta nell’“avviso all’indagato” inviatomi dalla Procura della Repubblica di Milano, la frase per cui vengo accusato di condotta diffamatoria ai danni dei soci di Acciaierie d’Italia, e per cui verrò processato il 14 marzo prossimo: “…sto parlando della città di Taranto dove ormai da 10 anni nonostante diverse perizie, nonostante tutte le sentenze e le ispezioni operate dai diversi gradi della Magistratura abbiano certificato che l’acciaieria produce ancora oggi polveri che causano danni alla salute; grave per chi abita nei quartieri limitrofi e nonostante sia stata ordinata la chiusura di quelle produzioni a caldo, di quegli altiforni, si è sempre trovata una maniera. Da ultimo il Consiglio di Stato ha bloccato una sentenza del Tar ma altre volte è stato direttamente il governo, il Consiglio dei ministri a sospendere temporaneamente e si continua così”.
Rispondevo alla telefonata di un ascoltatore nel corso della rassegna stampa Prima Pagina in onda su Radio3 la mattina del 21 novembre 2021. Al di là del linguaggio parlato, questa frase indicata come “reato”, perché “offendeva la reputazione dei querelanti, soci della Società Acciaierie d’Italia S.p.A.”, io potrei ripeterla e riscriverla mille volte. Perché sintetizza correttamente la tragica, lunga vicenda che fa di Taranto l’epicentro di una maledizione nazionale: se la realtà non è conforme alle regole, chi ne ha il potere cerca in tutti i modi di cambiare le regole. Con l’ultimo, varato dal governo Meloni, salgono a 14 i decreti “Salva Ilva” che a partire dal 2012 hanno consentito di eludere il sequestro degli impianti disposto dalla magistratura a seguito di numerose perizie. Senza contare le condanne inflitte in primo grado per “disastro ambientale” nel processo “Ambiente svenduto” agli ex proprietari della famiglia Riva; e i procedimenti in corso per corruzione in atti giudiziari a carico di uno dei commissari subentrati ai Riva. Come ha ben documentato Il Fatto, nella disattenzione generale, quest’ultimo decreto mira a scongiurare preventivamente l’operatività di eventuali nuovi provvedimenti di sequestro, concedendo al tempo stesso “tutele penali”, cioè un salvacondotto, agli attuali amministratori dell’acciaieria. E ciò in vista della rimessa in funzione degli altiforni oggi spenti allo scopo di aumentare i volumi produttivi di questo “impianto di interesse strategico nazionale”.
Poco importa che la Corte d’Assise di Taranto a fine maggio abbia respinto la richiesta di dissequestro dell’area a caldo in quanto persistono pericoli per l’ambiente e la salute della cittadinanza, nonché per la sicurezza dei lavoratori. Né importa che pochi giorni dopo, a giugno, il Consiglio d’Europa abbia segnalato che, sì, vi sono stati miglioramenti, ma insufficienti, visto che “il livello di produzione autorizzato potrebbe ancora creare un rischio per la salute pubblica”. Denunceranno per condotta diffamatoria anche il Consiglio d’Europa?
Comunque la pensino i cittadini di Taranto e i sindacati, divisi al loro interno, il messaggio rimane sempre lo stesso: di qui ai prossimi dieci anni, quando dovrebbero subentrare le nuove tecnologie green, l’imperativo di produrre più acciaio prevale sulla tutela della salute.
I nuovi gestori dell’acciaieria rivendicano il diritto di comportarsi come se l’esito nefasto dei comportamenti illeciti perpetrati da chi operava a Taranto prima di loro non li riguardasse. Per ottenere dal governo lo sblocco di 680 milioni di finanziamenti pubblici, l’attuale amministratrice delegata Lucia Morselli ha esercitato le più varie forme di pressione, compresa la sospensione dell’attività di 145 aziende appaltatrici. Il presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, di nomina pubblica, promette il completamento del nuovo piano ambientale per metà 2023 e annuncia che da allora si potrà tornare a produrre più acciaio. Grazie al nuovo decreto, la magistratura non avrà più voce in capitolo. Chi nel frattempo descrive la situazione di fatto dovrà fare i conti con le pratiche intimidatorie messe in campo dai soci privati dell’acciaieria, almeno fin tanto che detengono la maggioranza delle quote azionarie. È per questo che rendo noto oggi un fatto minore come la querela per cui verrò processato: la FNSI, il sindacato dei giornalisti, le definisce “querele bavaglio”. Aziende dotate di agguerriti uffici legali e di risorse sproporzionate rispetto a chi scrive ne fanno un uso sempre più frequente per condizionare la libera stampa.
Invano, da una ventina d’anni, si è tentato di far approvare dal Parlamento una legge che disincentivi il ricorso a questa sorta di “liti temerarie” finalizzate solo a far tacere l’informazione scomoda. In un modo o nell’altro, ricorrendo al voto segreto, varie proposte, a parole da tutti ritenute necessarie, sono state affossate.