Legare il femminicidio alla decisione della donna di separarsi. Fornire un profilo compassionevole del femminicida stesso, sottolineandone anche le numerose virtù. Arrivare persino a colpevolizzare la vittima, che non avrebbe capito la pericolosità del suo assassino. Sulla morte dell’avvocata romana Martina Scialdone la stampa italiana – con firme maschili ma anche, molte, femminili – ha mostrato il suo volto peggiore. E dimostrato che, nonostante convegni, corsi, Manifesto e giornate internazionali, di violenza sulle donne si scrive ancora utilizzando stereotipi e informazioni sbagliate o inutili ai fini della cronaca. Che aggravano, se possibile, il dolore dei parenti, oltre a deviare e confondere l’opinione pubblica.
“Lei mi lascia, dunque uccido”: la gelosia come motivazione dell’assassino
Il primo, madornale ma intramontabile, errore dei giornali sta nel legare fine della relazione e la gelosia con il femminicidio. Si tratta di una concatenazione causale sbagliata che finisce per insinuare una motivazione che sconfina con la giustificazione. Psicologizzando infatti le ragioni del femminicidio, si finisce per umanizzarlo. Ma è bene ricordare che il femminicidio è una violenza di un individuo di sesso maschile esercitata su una donna, fino a ucciderla, per motivi basati sul genere e in nome di un introiettato patriarcato. Tutto il resto è sovrastruttura ideologica.
E invece i giornali proprio sulla sovrastruttura insistono. Il Giornale del 15 gennaio titola: “Uccide la ex all’ultimo incontro. Martina lo aveva lasciato”. Il Messaggero, stessa data: “Il killer sapeva che se Martina non avesse accettato di tornare con lui l’avrebbe uccisa”. Repubblica del 16 gennaio arriva a dire che “un buon lavoro, una casa signorile e una bella macchina non gli sono bastati (a Buonaiuti, ndr). Di fronte a Martina che non voleva più stare con lui ha premuto il grilletto”. Anche qui, un legame certo tra decisione di lasciare e femminicidio. Infine, sempre il Messaggero, di lunedì, avanza l’ipotesi del tradimento di lei come possibile motivo di scatenamento della furia: “Forse ha scoperto che lei aveva iniziato a rivolgere le sue attenzioni verso altri uomini” e il giorno dopo lo definisce “dilaniato dalla gelosia”.
“Una vita in salita, la sua”: la santificazione dell’assassino
“Ingegnere specializzato in sistemi tecnologici, descritto come una persona irreprensibile”, “si è sempre occupato di rapporti internazionali, anche in virtù della sua perfetta conoscenza dell’inglese”: così il Corriere della Sera del 15 gennaio parla di Costantino Bonaiuti, aggiungendo anche dettagli inutili, ma che contribuiscono a dare un’immagine positiva. Il Messaggero del 15 gennaio fa ben peggio: parla di un “passato difficile, la malattia – che il suo avvocato nega, ndr – l’isolamento”, poi la complicata situazione economica della sua famiglia di origine, il fratello morto in un incidente, le due sorelle suicide a pochi mesi di distanza. Si loda il lavoro di Bonaiuti, che svolge il suo impiego con passione e “massima serietà”. Infine, della storia con Martina Scialdoni, scrive che il sessantunenne vi aveva “investito molto”.
Repubblica di domenica lo definisce, nelle parole dei vicini, “discreto, riservato”. Al Corriere del 16 febbraio appare importante invece ricordare come “Bonaiuti avesse un discreto successo sul fronte sentimentale”. Mentre sempre il Messaggero di domenica avanza l’ipotesi per cui Martina Scialdone avesse acconsentito a vedersi “perché, tuttavia, nonostante la fine, era stata la sua compagna per diversi anni in una relazione che aveva dato e tolto a entrambi”. Quasi sullo stesso piano, insomma.
Se persino la pelle nera diventa un’attenuante
Ma il pezzo forse più inneggiante al “lupo rabbioso” come viene definito nel titolo lo fa Repubblica di lunedì. Che apre il pezzo con incomprensibile enfasi retorica: “Nel limbo di Costantino Bonaiuti non c’è spazio per il compromesso. Il successo è vita. La sconfitta è morte”. Si parla del tumore, della malattia arrivata al cervello, dei fratelli morti. Il percorso della famiglia di Bonaiuti è costellato di lutti e momenti difficili”, a partire dalle “otto bocche da sfamare”. Non basta. Nell’articolo si ricorda che all’Enav Bonaiuti godeva della massima stima e si riprende un post incredibile – e ancora visibile on line – dell’ex collega Roberto Perticarà che su Facebook lo definisce “intelligente, simpatico, un gran figo”. Nel lavoro, continua sempre il quotidiano, “era riuscito a riscattare un’infanzia difficile, fra i disagi familiare e i mille complessi, come quello della pelle nera. Una vita in salita, la sua”.
Infine Il Giornale di domenica scrive: “Separato in casa, due tragedie familiari alle spalle, un brutto male che lo sta consumando. Gli elementi per pianificare l’assassinio ci sono tutti e Bonaiuti aspetta solo il momento giusto”. Un legame causa effetto diretto e assurdo.
Le improbabili tesi del difensore sposate dai giornali
Alcuni giornali riprendono poi le parole e le tesi del difensore di Bonaiuti, secondo cui l’uomo avrebbe voluto suicidarsi. Il Messaggero di lunedì riporta le parole del legale che parla di un uomo “spento e senza lacrime, come se fosse morto dentro, disperato”, segnato dal suicidio delle sorelle e costantemente rivolto col pensiero al suicidio. Il difensore, però, va oltre e scarica scarica la colpa su chi ha lasciato il porto d’armi a un uomo in cura per depressione, ma anche sul chi era presente all’interno del ristorante. E La Stampa, pur riportando le parole opposte del gip, dà voce sia alla tesi del suicidio fallito che a quella della colpa esterna. “Mentre stava per suicidarsi è partito un colpo che ha ferito mortalmente la ragazza. Il proiettile è partito dall’alto verso il basso. Il mio assistito è amareggiato e depresso, soffre molto, voleva farla finita. (…) Se tutti nel ristorante avessero fatto il loro dovere, questa ragazza sarebbe ancora viva”.
Incapace di riconoscere il pericolo: tutte le “responsabilità” della vittima
E poi c’è l’aspetto più doloroso, ovvero la colpevolizzazione, magari involontaria ma pur sempre grave, della vittima. Il Corriere della Sera del 15 gennaio parla di “una storia sbagliata, le difficoltà di portarla avanti. E forse anche la difficoltà di aprirsi e accettare suggerimenti”, sottolineando una (presunta) incapacità della vittima. Il Messaggero, sempre in data 15 gennaio, riporta il virgolettato di una vicina, che racconta di come Martina Scialdoni fosse andata da uno psicologo, ma che poi la relazione sarebbe proseguita. “Vede, spesso i figli si impuntano sulle cose e non sentono ragioni”. Commento inutile e fuorviante. Sempre il Messaggero parla dell’“ombra di un altro uomo a cui la ragazza si stava interessando”. Scritto in questo modo diventa quasi colpevolizzante verso la vittima.
Ad aggiungere responsabilità a chi non c’è più è anche un’intervista del Corriere del 16 febbraio a Gabriella Carnieri Moscatelli: la presidente del Telefono Rosa afferma che “scegliere la persona sbagliata può succedere, è assurdo continuare a starci insieme, al primo schiaffo bisogna alzare le antenne”. Parole giuste, ma decontestualizzate rispetto al delitto di Martina Scialdoni, che appunto voleva separarsi e che non sarebbe stata mai aggredita prima. Così come sono titolate infelicemente le parole della magistrata Maria Monteleone su Repubblica, “Le donne imparino a non accettare mai l’ultimo incontro”, sottovalutando proprio la difficoltà di capire quale effettivamente sia l’ultimo incontro.
La colpevolizzazione secondaria colpisce persino la madre della vittima. In un articolo dal titolo “Costantino alla madre della vittima: signora, perché non mi vuole bene?”, sempre del Messaggero del 16 gennaio, si racconta come Bonaiuti avesse cercato di trovare “nella madre della giovane civilista una sponda, un’apertura che sostenesse il loro rapporto. Non l’aveva ricevuta e Martina, tempo dopo, aveva deciso di finirla”. Se la madre l’avesse accettato, Martina non l’avrebbe lasciato?
Insomma, per stampa italiana, dunque, gli autori di femminicidio hanno sempre storie tragiche alle spalle, impazziscono per la separazione, mentre le donne sarebbero incapaci di capire la violenza che sta per esplodere. Una narrazione sbagliata e dannosa che in quanto tale, aggrava la condizione delle donne. Che avrebbero almeno il diritto a un racconto puntuale e veritiero del modo e dei motivi per cui subiscono violenza. Specie quando, poi, vengono uccise.