La vita di Alfredo Cospito non è messa a rischio dal regime di 41-bis, ma dallo sciopero della fame che egli sta perpetrando con l’obiettivo dichiarato dell’abolizione del regime di carcere duro. Se non vogliamo fare torto alla sua libertà e alla sua volontà politica, dobbiamo assumere che si tratti di una scelta presa in piena autonomia e che presuppone la capacità di ponderare le conseguenze, anche estreme, delle proprie azioni.
Riconoscendogli quella volontà, occorre ritenere che egli sappia perfettamente che la sua protesta non condurrà all’abolizione del 41-bis. Ma la vicenda di Cospito è paradigmatica, va oltre il suo caso perché evoca una delle questioni centrali della filosofia politica: la sovranità, ovvero – in ultima analisi – il potere dello Stato di usare la forza legittima.
Un potere che si scontra con quella pretesa di autodeterminazione del soggetto che può giungere al parossismo di rifiutare ogni forma di coercizione eteronoma. Fino alla volontà di morire come forma di agency politica. La morte come metodo di sottrazione alla presa dello Stato. Una condotta che ha delle ovvie affinità con il martirio cristiano (martire, lo si rammenti, vuol dire testimone) e con il terrorismo suicida di matrice islamica.
Il paradosso della sovranità – gestione della vita per mezzo dell’uso della forza – è enucleato da Michel Foucault: “‘Va’ a farti trucidare e noi ti garantiamo vita lunga e piacevole’. L’assicurazione sulla vita è connessa a un imperativo di morte”. È sempre Foucault a sostenere, usando il termine “biopolitica”, che lo Stato pretende non più di decidere chi uccidere e chi lasciar vivere, ma chi far vivere e chi lasciar morire. La risposta di Cospito è a sua volta una sorta di necro-resistenza suicidaria: egli ritiene che lo Stato eserciti un potere abnorme non tanto di ucciderlo, ma di farlo vivere per forza; al quale rispondere sottraendoglielo, ovvero morendo di mano propria.
Perché è questa la conseguenza a cui purtroppo Cospito sta andando incontro, del tutto consapevolmente. Il filosofo Stuart J. Murray in un libro pubblicato nel 2022 (The Living from the Dead: Disaffirming Biopolitics) si è occupato dello sciopero della fame organizzato nel 2013 da trentamila detenuti che solidarizzavano con i reclusi in condizione di isolamento pressoché assoluto nelle carceri statunitensi. Secondo Murray, la volontà di morire rappresenta un dispositivo di reazione al potere dello Stato. Murray ricorda che nel 2006 il comandante di Guantanamo commentò alcuni suicidi definendoli non un atto di disperazione, ma di guerra asimmetrica.
Ora lo Stato italiano si trova di fronte al dilemma se far vivere o lasciar morire Cospito. Ancora una volta, un paradosso: lasciare che si consumi significherebbe consentirgli un’esiziale espressione di autonomia; salvarlo forzatamente vorrebbe dire contravvenire alla sua volontà di portare fino in fondo la protesta. Dunque riconoscere la sua volontà politica e lasciare che si uccida o affermare la volontà politica dello Stato? E questa volontà politica come si sostanzia? Nel caso californiano citato, lo Stato ha agito ritenendo invalida ogni direttiva Do Not Resuscitate (“Ordine di non rianimare”) i detenuti avessero firmato.
Nel caso italiano, Cospito sa che non può vincere, se chiede l’abolizione tout court del 41-bis. Lo Stato potrà rispondere solo esercitando il proprio potere, che al suo massimo grado significa salvarlo senza scendere a compromessi. Far sì che viva, insomma, non come risultato di una impossibile relazione di potere orizzontale, ma come affermazione verticale che massimamente contraddirebbe proprio i principi anarco-insurrezionalisti a cui Cospito sta sacrificando la propria vita.
* Docente di Filosofia politica presso l’Università di Camerino