Il 27 gennaio è arrivato in libreria, per Bollati Boringhieri, “Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato”, un pamphlet provocatorio e attuale sulle contradditorie forme di auto-sfruttamento del capitalismo di oggi. A scriverlo è stata Valentina Pazé, femminista e docente di Filosofia politica all’Università di Torino. Dal mondo omerico all’ipotesi di legalizzare la maternità surrogata: questioni controverse su cui oggi la sinistra, ma anche i movimenti e le associazioni per i diritti umani, sono divisi. Abbiamo chiesto alla professoressa Pazé di aiutarci a riflettere sul velo islamico, e sul dibattito tra costrizione e libertà individuale.
Da quando, nel 2013, è stata lanciata da una ragazza newyorkese di origini bengalesi per denunciare le discriminazioni ai danni delle musulmane, il 1 febbraio è la Giornata mondiale dell’hijab. Ma quest’anno nella stessa data si è tenuto anche il Global Body Riot, la “rivolta globale del corpo”, promossa da alcune associazioni in solidarietà con le donne iraniane che il velo sono costrette a indossarlo. E anche con la dovuta “modestia”, come sappiamo, per non rischiare la sorte toccata a Mahsa Amini e ai tanti e alle tante che l’hanno seguita.
Commenta Giuliana Sgrena su Micromega: “Paradossalmente in Occidente si difende il diritto di portare il velo mentre nei paesi musulmani le donne lottano per il diritto a non portarlo”. Ma il paradosso, a ben vedere, è apparente. Che cosa c’è di strano se, là dove viene osteggiato, o addirittura vietato (come nelle scuole francesi), il velo viene rivendicato con orgoglio, finendo con assurgere a simbolo di libertà, mentre là dove viene imposto per legge (come in Iran) viene rigettato e eretto a simbolo dell’oppressione?
Il problema, evidentemente, non è l’indumento in sé – un inoffensivo foulard, spesso colorato, che incornicia il volto di molte donne di origine maghrebina anche nel nostro paese –, ma il fatto che sia oggetto di divieti o obblighi che limitano la libertà di espressione delle donne. Come osserva la studiosa algerina Marnia Lazreg: “Vietare il velo è un atto politico quanto imporlo. […]. Le donne sono tenute in ostaggio allo stesso modo sia dagli estremisti laici che dai wahabiti, sia dagli islamisti sia dagli sciiti. Nessuno di loro pensa che siano in grado di decidere da sole come gestire il proprio corpo e se portare il velo o no” (cit. in R. Pepicelli, Il velo nell’islam, Roma 2012, pp. 81-82).
Per Giuliana Sgrena non è questo il punto: il velo sarebbe, per definizione, un “simbolo dell’oppressione della donna”, che solo un malinteso cedimento nei confronti del “relativismo culturale” rende accettabile. Ma è davvero, e sempre, così? Il problema, con i simboli, è che sono tendenzialmente mobili, aperti a molteplici interpretazioni e slittamenti semantici. Pretendere di fissarne il significato una volta per tutte, astraendoli dal contesto e dagli usi che le persone in carne e ossa decidono di farne, non aiuta a comprendere la realtà.
Il caso dell’hijab è, da questo punto di vista, esemplare. Le ricerche che hanno indagato sul suo recente revival, in Europa, hanno fatto emergere una molteplicità di significati: c’è il velo tradizionale delle mamme e delle nonne; quello delle adolescenti, prescritto dai genitori o con questi “negoziato” per potere uscire la sera; quello delle giovani che lo rivendicano contro i genitori, accusati di essersi troppo assimilati alla cultura occidentale (come nel celebre caso delle due sorelle di Aubervilliers espulse dalla scuola nel 2003). C’è chi lo indossa per esprimere l’adesione a una fede o a un’ideologia, chi per sfidare i pregiudizi della cultura maggioritaria. E c’è anche chi, senza farsi troppe domande, dichiara di considerarlo quasi come una seconda pelle, senza la quale non si sentirebbe a proprio agio a uscire.
Riferendosi all’hijab esibito da giovani maghrebine dei quartieri-ghetto delle grandi città francesi, Annamaria Rivera ha evocato il fenomeno del “rovesciamento dello stigma”: la rivendicazione orgogliosa, da parte di una minoranza disprezzata, del simbolo della propria alterità. Se un tempo erano i neri a gridare al mondo: “black is beautiful”, oggi sono gli immigrati, spesso vittime di razzismo e discriminazione, a sentire il bisogno di affermare: “musulmano è bello” (A.M. Rivera, La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche dell’alterità, Bari 2005). In un simile contesto il velo può diventare “simbolo più di ribellione che di sottomissione, espressione del desiderio di rendersi visibili più che di farsi invisibili” (ivi, p. 27). Un fenomeno che era stato già osservato da Franz Fanon in Algeria, in risposta alle cerimonie di “svelamento” in piazza organizzate dagli occupanti francesi: “All’offensiva colonialista nei confronti del velo, il colonizzato oppone il culto del velo”.
Si potrebbe obiettare che quanto fin qui sostenuto vale per l’hijab, che non impedisce a chi lo indossa di condurre una normale vita sociale, ma non per il niqab, che lascia scoperti solo gli occhi, o il burka, che nasconde l’intero corpo, compreso il viso, contemplando solo una griglia per consentire la visione a chi lo indossa. Di fronte a indumenti così ingombranti, che nascondono quasi interamente la persona, la tesi del carattere “necessariamente disumanizzante” del velo integrale, contenuta nel Rapporto Gerin-Raoult (commissionato dal Parlamento francese nel 2010), può apparire non priva di plausibilità. E l’ipotesi che dietro al niqab, o al burka, si nascondano donne fondamentalmente plagiate, che non sono davvero padrone delle proprie scelte, non può essere scartata. E tuttavia, non mancano testimonianze di neoconvertite all’islam, di livello di istruzione medio-alto, che dichiarano di avere autonomamente deciso di sottrarsi agli sguardi altrui, anche per affrancarsi da modelli di femminilità giudicati opprimenti.
Che dire di fronte a simili prese di posizione? Cogliere le motivazioni dei comportamenti altrui, e misurarne il grado di libertà, in assenza di indizi evidenti di violenza e intimidazione, non è mai facile. Ci si potrebbe chiedere se anche scelte apparentemente molto distanti, come quella di sottoporsi a interventi di chirurgia estetica, siano sempre frutto di decisioni autonome o non riflettano l’adeguamento acritico a un ideale di bellezza femminile tutto maschile. Certo è che vietare alle donne con il velo integrale di passeggiare per le strade e per le piazze, come fa la legge francese del 2011, significa confinarle in modo ancora più totale entro le mura domestiche. Quando proprio di uscire di casa e di frequentare spazi non segregati queste donne avrebbero probabilmente bisogno.
*Insegna Filosofia politica all’Università di Torino. Si è occupata, in prospettiva storica e teorica, di comunitarismo e delle teorie antiche e moderne della democrazia e dei diritti