Da storica del parto e della nascita mi hanno sempre colpito due aspetti che emergono come elementi di lunga continuità nel corso della storia, al di là delle radicali trasformazioni che hanno caratterizzato la scena del parto: da un lato la colpevolizzazione delle madri, mai abbastanza adeguate al loro ruolo; dall’altro la disattenzione nei confronti della loro soggettività e dei loro bisogni, strettamente coniugata al processo di medicalizzazione.
Sono due aspetti correlati e argomentati sempre con ragioni scientifiche che variano nel corso del tempo, concretizzandosi in protocolli via via diversi, talora opposti, ma che assumono in ogni caso carattere di regole e norme più o meno esplicite, ancor più vincolanti perché presentate spesso sotto forma di “doveri morali” che la madre ha nei confronti del proprio figlio e/o di comportamenti “naturali” a cui dovrebbe “naturalmente” uniformarsi. È importante sottolineare la costante influenza e peso di fattori culturali, ideologici, religiosi, che stanno a monte e indirizzano sia la direzione della ricerca medico-scientifica, che le pratiche terapeutiche.
Negli anni ‘50-’60, quando l’ospedalizzazione del parto si impone in tutto il mondo occidentale, i protocolli ospedalieri prevedevano l’isolamento della partoriente dai familiari, un largo uso di strumenti e manovre ostetriche, la pratica sistematica dell’episiotomia e del Kristeller, il frequente uso di ossitocina, l’assenza di ogni forma di anestesia e profilassi, senza informazione e/o consenso della donna. Dopo il parto, l’allontanamento immediato del neonato nella nursery, l’allattamento a orari fissi. Le partorienti/puerpere che si lamentavano venivano redarguite, accusate di scarsa responsabilità, colpevolizzate.
Il movimento delle donne degli anni Settanta ha condotto contro questo stato di cose una grande battaglia, fatta di denunce, inchieste, analisi, manifestazioni, affermando il principio fondamentale che una donna dovesse essere soggetto e non “oggetto” del proprio parto, al di là di norme e condizionamenti: basti pensare al testo di Adrienne Rich, Nato di donna (1975 ), o al libro-denuncia Basta Tacere, pubblicato dal Movimento di lotta femminista di Ferrara nel 1972. Un titolo diventato un po’ parola d’ordine, ripresa non casualmente negli anni Duemila dalla sezione italiana de l’Human Rights in Childbirth, in un’inchiesta avviata on line.
Eppure solo negli anni Novanta si è dato a questo insieme di maltrattamenti un nome, segnando così un passaggio importante nella messa a fuoco del fenomeno: quella di “violenza ostetrica”. Si tratta di una forma di vittimizzazione di genere e istituzionale al tempo stesso, ancor più inaccettabile perché colpisce una donna in un momento di particolare delicatezza della sua vita, che dovrebbe essere al contrario accompagnato e valorizzato con il massimo della cura e dell’attenzione, considerando anche l’importante risvolto sociale della scelta individuale, di cui ci si ricorda solo astrattamente davanti alle cifre del calo demografico, con accorati appelli alla riproduzione.
Questa mobilitazione delle donne, che ha coinvolto negli anni Settanta anche significativi settori del mondo medico (basti pensare a precursori quali Lamaze, Leboyer, Odent), ha portato importanti innovazioni e riforme: si pensi all’apertura dei consultori con i corsi di preparazione al parto (1975), alle nuove raccomandazioni dell’Oms (Tecnologia appropriata per la nascita, 1985) che criticavano l’eccessiva medicalizzazione del parto, attente anche al benessere “psichico” della donna, per arrivare alla Carta dei diritti della Partoriente da parte della Unione Europea (1988).
Sotto questa spinta si sono registrati tra gli anni Ottanta-Novanta rilevanti cambiamenti nella pratica ostetrica ospedaliera, con la riorganizzazione di reparti ostetrici, con la creazione di Case del parto, seppur in modo alquanto disomogeneo nel territorio nazionale. L’introduzione del rooming in è da considerarsi una di queste conquiste, fortemente voluta dal movimento delle donne.
Eppure il tragico fatto del Pertini, e soprattutto le molte denunce di madri che hanno animato il dibattito successivo, hanno dimostrato come anche questa “buona pratica”, raccomandata da Oms, possa rivelarsi, nella realtà ospedaliera, un’arma a doppio taglio per le madri, se non adeguatamente supportate e assistite (e al di là di un consenso formale espresso prima del travaglio), trasformarsi di fatto, al contrario delle sue buone intenzioni, in un’ulteriore fattore di sofferenza per la donna (e di conseguenza per il neonato). Desta stupore e indignazione leggere in tante testimonianze di questi giorni quanta poca attenzione ancora si presti alle sofferenze della madre, ai suoi più elementari bisogni e necessità, come quelli, ad esempio, di riposare, di dormire dopo i dolori di travagli spesso molto lunghi, dopo lo stress, le paure, lo scombussolamento del parto. Invece, dopo tutto ciò, è diffusa l’aspettativa che lei abbia la forza “eroica” di stare ancora e più che mai vigile, pronta ad accudire il suo bambino, a cambiarlo, ad allattarlo, come se la maternità le infondesse dei superpoteri, trasformandola in un superwoman.
Emerge qui in tutta la sua pregnanza, con la forza di secoli di costruzioni culturali e simboliche, il modello ideologico della madre sacrificale, onnipotente e onnipresente nella sua “naturale” oblazione, che rischia di risultare ancor più accentuato dalle indicazioni di un allattamento al seno a richiesta prolungato anche di anni, che difficilmente si coniuga con orari e i ritmi di un’attività lavorativa. Un modello questo che si è rafforzato (e rischia ancor più a rafforzarsi) con le carenze del personale ospedaliero, con i turni massacranti imposti a operatori/trici, con le norme anti Covid adottate da molti ospedali che limitano drasticamente l’accesso del padre e dei familiari (che potrebbero dare assistenza); con il mancato riconoscimento e accesso della figura delle puericultrici (è di questi giorni il loro appello al governo).
Certo non è così ovunque: generalizzare è sempre sbagliato, tanto quanto minimizzare o ignorare. Ma, a quanto documentano i dati dell’Osservatorio contro la violenza ostetrica (circa 5.000.000 di donne intervistate nel 2017), è assai diffusa questa realtà che si nutre di mancanza di empatia, di indifferenza, di impotenza, che si fa scudo di nuovi protocolli medici, al di là e al di sopra della persona reale.
Allora, da quel passato a cui la medicina guarda spesso con dileggio, sarebbe opportuno recuperare qualche perla di saggezza, che accomunava la medicina dotta e quella popolare fino al primo Novecento: la raccomandazione, ad esempio, che la puerpera dovesse essere messa a letto dopo il parto, accudita e alimentata (come si vede in molti quadri di nascita), e soprattutto che dovesse riposare “per recuperare le forze diminuite dalla grande fatica del travaglio e dalla grande quantità del sangue perduto”, come scriveva nel Seicento il fondatore dell’ostetricia francese François Mauriceau.
Dietro i rituali terapeutici antichi tradizionali che proteggevano la puerpera (oltre che il bambino) prevendendo la vicinanza di altre donne al suo fianco, si celava la consapevolezza che il primo momento del puerperio fosse delicato e importante non solo da un punto di vista fisico, ma anche psicologico ed emotivo, non solo appunto per consentire alla donna di recuperare le forze, ma per darle modo di rielaborare lo sconvolgimento corporeo vissuto, la nuova realtà di esser diventata madre, sperimentando gradualmente la relazione con il nuovo essere uscito dal suo corpo, ri-conoscendolo come figlio.
*Nadia Maria Filippini è docente di Storia delle donne presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. È socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche e fa parte della redazione della sua rivista, “Genesis”